In morte di Giovanni Brera mi chiedo se le disfide e irrisioni etniche che ci siamo scambiati per tanti anni non fossero solo un gioco da "pais" padani, un piacere di inventarci storie antiche, di epica popolaresca che in realtà non andavano più in su dei nostri nonni borghesi da entrambi spacciati per contadini, delle nostre gioventù e studi e frequentazioni piccolo borghesi mai più in su delle nostre parentele con professori o maestre di scuola da noi trasformati in sabbiaioli del Po o in braccianti del cuneese o se davvero, alla fine, ci fossimo convinti di essere venuti al giornalismo o alla letteratura da una cultura contadina.
Per lui e per me, fratelli padani che si sono guardati con amore diffidente, con attenzione continua e sospettosa, con una stima sempre in guardia con un coesistere mai confidenziale, erano vere le due cose. Non eravamo contadini, non avevamo mai tenuto in mano una zappa, mai provato sul serio la fatica bestiale del contadino, ma lo eravamo nella lingua, nei lunari e nelle fiere, nei banchetti nuziali, nei proverbi, nell'umorismo, nel rapporto con il pane e con il vino e con le donne, incapaci entrambi di amori dal dolce stil novo, ancora legati alla donna reggitora della casa e dei figli.
Eravamo di quegli italiani che devono imparare l'italiano come una lingua non direi straniera, ma più alta e più grande, non solo nostra e dei nostri "pais", ma di tutti, di tutte le province e città. E questa fatica fu certamente più importante di tutte le nostre guerre e giri per il mondo e per le gazzette. Giovanni che aveva ambizioni letterarie più forti di tutto, del mestiere, del successo, del denaro direi delle stesse amicizie, ha amato la lingua più di ogni altra cosa al mondo e, siccome era uno che non solo la padroneggiava ma la inventava, soffriva pene io so amarissime e taglienti sentendo attorno a sé per molti anni la sufficienza di letteratucoli che non avevano un'oncia del suo talento prodigioso in quella musica che è il linguaggio.
Altri si occuperanno, immagino, del Gianni Brera sportivo grandissimo giornalista sportivo, passato per tutte le grandi competizioni, conoscitore di tutti i retroscena, che ostentava una fedeltà da "dipendente", da uno "che non sputa nel piatto in cui mangia" verso le faccende sportive, anche le minori, anche le più discutibili. Come un vero uomo di teatro per la vita del teatro, con una solidarietà da compagnia di giro per tutti quelli che facevano parte del suo carro, a cui, ricordo di un pranzo a Monaco di Baviera, ordinava persino i cibi che a suo genio gli si adattavano. Ma io pur leggendo le sue cronache e i suoi libri di sport e lavorando con lui per gare ciclistiche e Olimpiadi e partite di calcio, non l'ho mai guardato, non l'ho mai pensato, non l'ho mai temuto o ammirato come un giornalista sportivo, ho sempre pensato a lui come a un Aretino, come a un Gadda per dire a un maestro della lingua.
E di lui mi sono bevuto, copiandolo se ci riuscivo, le sue cose migliori che non erano le grandi cronache sportive e neppure i pur ottimi e misconosciuti romanzi, ma i suoi racconti di caccia e di pesca sul "Guerin Sportivo" che non so per quale congiura della stupidità italiana nessun editore ha pensato di raccogliere in volume. In quei racconti di caccia e pesca sui laghi della Lombardia, anche nel piccolo lago su cui aveva costruito la sua casa, o nel grande Po e nel limpido Ticino qui sì che viene fuori la grande letteratura lombarda, la poesia della grande pianura madre, delle sue acque nivali e glaciali, delle sue marcite e delle sue risaie e di tutto ciò che l'intelligenza seppe, di questa terra e acque nutrendosi, produrvi da Manzoni a Cattaneo, dal Plinio comasco al Virgilio mantovano.
E' stato qui in questi suoi meravigliosi racconti in questo suo e mio mondo dove la lingua fioriva, si diramava e intrecciava come le radici, tremava come le foglie del gelso o splendeva d'argento come quelle dei pioppi qui dove meglio e più di ogni immagine penetrava in tutte le linfe segrete e preziose della terra materna che mi sono sentito fratello a Giovanni
Nei rapporti di giornale e di società, inutile
mentire, siamo sempre stati in guardia l'uno verso l'altro. Aveva
molti complessi umani e sociali Gianni, grandissimi orgogli, estrema
pudicizia nei sentimenti. E poi lui non poteva ordinarmi i piatti
che avrei dovuto mangiare e io non potevo tentare di litigare
davvero con lui. E forse era giusto che fosse così, perché il vero,
forte legame comune era quello della cordata, di essere due che
avevano salito legati alla stessa corda la montagna misteriosa ma
stupenda della lingua, dello scrivere. E che morir bisogna lo
sapevamo entrambi. Ma il tempo, Gianni, continuerà a passare, saetta
d'argento, nelle nostre acque nivali o glaciali.
Giorgio Bocca