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"Dieci cartelle in due ore: solo lui poteva"

Repubblica 20 -21 Dicembre 1992

Io so tante, troppe cose di Gianni Brera e non so da quale parte cominciare. La costernazione, il dolore. Era per me un fratello. La Gazzetta dello Sport era risorta il 2 luglio 1945: e, una settimana dopo, aveva annunciato il Giro della rinasci-ta, che sarebbe scattato nel maggio del 1946. Bruno Roghi aveva stipato in una sala del se-condo piano del palazzotto di via Galilei le firme di un tempo, che, anche dimettendosi, all'e-poca trista della Repubblica di Salò, avevano onorato l'antico foglio rosa. Rosario Busacca, Giovanni Canestrini, Massimo Della Pergola (che con Geo Molo e Fabio Jegher inventerà il Totocalcio) Vincenzo Cuccia Sabelli Fioretti, Felice Palascia-no e, a Roma, Enrico Vignolini. I giovani erano Gianni Brera, Giorgio Fattori, Luigi Gianoli e, stranito dalla guerra di Russia, chi scrive.

Gianni Brera calzava un paio di scarpe da paracadutista e portava addosso e recava sul viso «partigiano»: come una zanna, la fucilata di un tedesco, nel corso di un rastrellamento, gli aveva inciso un piccolo gra-dino nel naso. L'amicizia fu im-mediata. Abitava con la moglie, la dolcissima Rina, in via Catala-ni, a Milano: vicino a suo fratel-lo, Franco. Io venivo in biciclet-ta, il mattino da Monza e poiché via Catalani sfociava in piazzale Loreto, passavo da Gianni, per filare al giornale. Il cui direttore per la verità, molto non mi an-nusava, forse per il mio aspetto fra lo sciamannato e il dispera-to. Cosi era. Confidavo a Gianni che, a volte, al cospetto del di-rettore mi cedevano le gambe. Ero molto vicino alla psicosi a-cuta: allo stato confusionale.

Lui pensava a voce alta

Brera mi soccorreva, non alla maniera pietosa, ma frustandomi. Lui pensava a voce alta: e aveva il torto, per alcuni colle-ghi, di esternare pure le verità non richieste. Un lusso costoso. Gli era stata affidata l'atletica leggera, il «culto dell'uomo». E fu, quella, una splendida intui-zione di Bruno Roghi.

Stoltamente, però, non gli veniva permessa alcuna evasione dal settore, fosse pure il calcio. Gli era lecito scrivere di calcio sul «Guerin Sportivo», e i lettori della Gazzetta seppero presto dove ritrovarlo.

Il giornalismo ha una tendenza allo sgambetto. I pigri al gioco o i distratti, ci cadono. Una mattina mi dissero che la mia scrivania era stata posta in un box, molto vicino alla via d'uscita del giornale. Passi per me, ma che vi avessero deposto, nel box pure la scrivania di Brera era una cosa che non mi andava giù. Quel pomeriggio alla «mensa» non avevamo commensali in redazione -io davo sfogo al mio malumore: all'opposto, Brera faceva sfoggio di spirito e di umorismo. Ma avevano voglia di «aprire agli altri» e di «chiudere a lui». Il suo standard stilistico era altissimo: io ho sempre avuto la sensazione, a proposito, che lo sport fosse una materia troppo labile per la sua cultura. Gianni lo studiava con serietà, a fondo.

Il giorno che lo nominarono direttore della Gazzetta, un vecchio tipografo gli disse: «Guardi, io non credo alla morale del mondo. Ma oggi penso che una certa giustizia, alla grossa, nel mondo, esiste». I suoi ammiratori o lettori «culti» non sospettavano minimamente che Brera scrivesse sette-otto-dieci cartelle, nello spazio di neanche due ore, ai Giri e ai Tour, con il dettatore (in Gazzetta il povero Angelo Ponti) che le toglieva dal carrello della macchina da scrivere, venti righe la volta. Quando gli raccontai che le sue definizioni letterarie, i suoi sinonimi erano entrati addirittura nel lessico del codice sportivo e del regolamento, mi rispose: «Ritengo, se non mi illudo, di aver contribuito la mia parte a delineare con passabile e onesta nitidezza il gesto atletico».

Amava la sua terra, la Padania. Era contento che altri l'amasse e che io e il suo fedele conduttore, il Pepp Dedé, fossimo lombardi: anche se loro erano «bassaioli» e io un «celta», in quanto testone e brianzolo.

Il lavoro nostro dietro al ciclismo è legato a ricordi bellissimi e schietti. Reinventavamo i «pais» e ci eccitavamo alle loro gesta: scoprivamo dei «pais» la fisionomia morale, umana sotto la scorza spessa dei «geants de la route».Vivevamo avventure splendide per semplicità e bravura. Coppi... Bartali... Magni. Il nostro referente, nei Tour, era Alfredo Binda.

Quanti Giri! Quanti Tour: insieme per la Gazzetta dello Sport e per Il Giorno, della cui redazione sportiva (Gianni Clerici, Pilade Del Buono, Giulio Signori, Angelo Pinasi, Gianmario Maletto, Piero Dardanello...)andava fiero. «Sei un trait d'union e un amico» mi sorrideva. E mi prendeva bonariamente in giro. «Sulla strada del ciclismo si consumano talvolta autentici delitti: ma, per te, sono immancabilmente d'onore». Io ero convinto che lo «stile Giorno» (il Giorno di rottura di Baldacci: il Giorno di Italo Pietra) esigesse che gli aggettivi fossero un diluente banale della sostanza pittorica: e che non vi si dovesse ricorrere, anche per l'«umile ciclismo», se non per gli elogi iperbolici. Intarsiavo perciò le mie cronache di soli concetti tecnici.

Il ciclismo dei poveri

Brera mi sfotteva garbatamente: «Se ti riesce un bel verso - interveniva - eliminalo impietosamente (lo consiglia il grande Anatole) ». E un giorno che mi scappò scritto che, «passando accanto a una piscina i corridori l'asciugarono con gli occhi» mi ricordò l'immagine, per anni. Io ne ero molto impacciato. Gianni gongolava. Brera da Il Giorno approdò al Giornale: lo avrei ritrovato a Repubblica. Una delle cause per cui ho abbandonato il ciclismo, che non assomiglia spesso a se stesso, è stato il non sapere più vedere una corsa senza Brera. Magari da murate differenti ma dovevamo guardare insieme e commentare: e succedeva che mi provocasse, ad arte «come facevano i frati nelle prediche -precisava- per ravvivare il dialogo e divertirsi anche mentre lavorava». Tornavamo ogni anno al Tour, alla Francia, come l'onda allo scoglio. La Francia lo consolava di essere latino.

Poi, vennero il calcio e l'abbandono da parte sua del ciclismo «che aveva amato come epos dei poveri». Aveva smesso di vagabondare. Lo vedevo alla tv: ed ero contento che partecipasse ai «giovedì del suo club»: che lo attorniassero Missoni, Bolchi, Paleari: che avesse sempre successo. Non mi facevo mai vivo. Mi rimproverava. Io non riesco a restare solo: sei un vecchio saggio, mi diceva. Radio Popolare mi ha telefonato alle otto di ieri mattina: ho provato un grande dolore. Come un'ansia di spavento.

MARIO FOSSATI

 


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