Io so tante, troppe cose di Gianni Brera e non so da quale parte cominciare.
La costernazione, il dolore. Era per me un fratello. La Gazzetta dello Sport
era risorta il 2 luglio 1945: e, una settimana dopo, aveva annunciato il
Giro della rinasci-ta, che sarebbe scattato nel maggio del 1946. Bruno Roghi
aveva stipato in una sala del se-condo piano del palazzotto di via Galilei
le firme di un tempo, che, anche dimettendosi, all'e-poca trista della
Repubblica di Salò, avevano onorato l'antico foglio rosa. Rosario Busacca,
Giovanni Canestrini, Massimo Della Pergola (che con Geo Molo e Fabio Jegher
inventerà il Totocalcio) Vincenzo Cuccia Sabelli Fioretti, Felice
Palascia-no e, a Roma, Enrico Vignolini. I giovani erano Gianni Brera,
Giorgio Fattori, Luigi Gianoli e, stranito dalla guerra di Russia, chi
scrive.
Gianni Brera calzava un paio di scarpe da paracadutista e portava addosso e
recava sul viso «partigiano»: come una zanna, la fucilata di un tedesco, nel
corso di un rastrellamento, gli aveva inciso un piccolo gra-dino nel naso.
L'amicizia fu im-mediata. Abitava con la moglie, la dolcissima Rina, in via
Catala-ni, a Milano: vicino a suo fratel-lo, Franco. Io venivo in
biciclet-ta, il mattino da Monza e poiché via Catalani sfociava in piazzale
Loreto, passavo da Gianni, per filare al giornale. Il cui direttore per la
verità, molto non mi an-nusava, forse per il mio aspetto fra lo sciamannato
e il dispera-to. Cosi era. Confidavo a Gianni che, a volte, al cospetto del
di-rettore mi cedevano le gambe. Ero molto vicino alla psicosi a-cuta: allo
stato confusionale.
Lui pensava a voce alta
Brera mi soccorreva, non alla maniera pietosa, ma frustandomi. Lui pensava
a voce alta: e aveva il torto, per alcuni colle-ghi, di esternare pure le
verità non richieste. Un lusso costoso. Gli era stata affidata l'atletica
leggera, il «culto dell'uomo». E fu, quella, una splendida intui-zione di
Bruno Roghi.
Stoltamente, però, non gli veniva permessa alcuna evasione dal settore,
fosse pure il calcio. Gli era lecito scrivere di calcio sul «Guerin
Sportivo», e i lettori della Gazzetta seppero presto dove ritrovarlo.
Il giornalismo ha una tendenza allo sgambetto. I pigri al gioco o i
distratti, ci cadono. Una mattina mi dissero che la mia scrivania era stata
posta in un box, molto vicino alla via d'uscita del giornale. Passi per me,
ma che vi avessero deposto, nel box pure la scrivania di Brera era una cosa
che non mi andava giù. Quel pomeriggio alla «mensa» non avevamo commensali
in redazione -io davo sfogo al mio malumore: all'opposto, Brera faceva
sfoggio di spirito e di umorismo. Ma avevano voglia di «aprire agli altri» e
di «chiudere a lui». Il suo standard stilistico era altissimo: io ho sempre
avuto la sensazione, a proposito, che lo sport fosse una materia troppo
labile per la sua cultura. Gianni lo studiava con serietà, a fondo.
Il giorno che lo nominarono direttore della Gazzetta, un vecchio tipografo
gli disse: «Guardi, io non credo alla morale del mondo. Ma oggi penso che
una certa giustizia, alla grossa, nel mondo, esiste». I suoi ammiratori o
lettori «culti» non sospettavano minimamente che Brera scrivesse
sette-otto-dieci cartelle, nello spazio di neanche due ore, ai Giri e ai
Tour, con il dettatore (in Gazzetta il povero Angelo Ponti) che le toglieva
dal carrello della macchina da scrivere, venti righe la volta. Quando gli
raccontai che le sue definizioni letterarie, i suoi sinonimi erano entrati
addirittura nel lessico del codice sportivo e del regolamento, mi rispose:
«Ritengo, se non mi illudo, di aver contribuito la mia parte a delineare con
passabile e onesta nitidezza il gesto atletico».
Amava la sua terra, la Padania. Era contento che altri l'amasse e che io e
il suo fedele conduttore, il Pepp Dedé, fossimo lombardi: anche se loro
erano «bassaioli» e io un «celta», in
quanto testone e brianzolo.
Il lavoro nostro dietro al ciclismo è legato a ricordi bellissimi e
schietti. Reinventavamo i «pais» e ci eccitavamo alle loro gesta: scoprivamo
dei «pais» la fisionomia morale, umana sotto la scorza spessa dei «geants de
la route».Vivevamo avventure splendide per semplicità e bravura. Coppi...
Bartali... Magni. Il nostro referente, nei Tour, era Alfredo Binda.
Quanti Giri! Quanti Tour: insieme per la Gazzetta dello Sport e per Il
Giorno, della cui redazione sportiva (Gianni Clerici, Pilade Del Buono,
Giulio Signori, Angelo Pinasi, Gianmario Maletto, Piero Dardanello...)andava
fiero. «Sei un trait d'union e un amico» mi sorrideva. E mi prendeva
bonariamente in giro. «Sulla strada del ciclismo si consumano talvolta
autentici delitti: ma, per te, sono immancabilmente d'onore». Io ero
convinto che lo «stile Giorno» (il Giorno di rottura di Baldacci: il Giorno
di Italo Pietra) esigesse che gli aggettivi fossero un diluente banale della
sostanza pittorica: e che non vi si dovesse ricorrere, anche per l'«umile
ciclismo», se non per gli elogi iperbolici. Intarsiavo perciò le mie
cronache di soli concetti tecnici.
Il ciclismo dei poveri
Brera mi sfotteva garbatamente: «Se ti riesce un bel verso - interveniva -
eliminalo impietosamente (lo consiglia il grande Anatole) ». E un giorno che
mi scappò scritto che, «passando accanto a una piscina i corridori
l'asciugarono con gli occhi» mi ricordò l'immagine, per anni. Io ne ero
molto impacciato. Gianni gongolava. Brera da Il Giorno approdò al Giornale:
lo avrei ritrovato a Repubblica. Una delle cause per cui ho abbandonato il
ciclismo, che non assomiglia spesso a se stesso, è stato il non sapere più
vedere una corsa senza Brera. Magari da murate differenti ma dovevamo
guardare insieme e commentare: e succedeva che mi provocasse, ad arte «come
facevano i frati nelle prediche -precisava- per ravvivare il dialogo e
divertirsi anche mentre lavorava». Tornavamo ogni anno al Tour, alla
Francia, come l'onda allo scoglio. La Francia lo consolava di essere latino.
Poi, vennero il calcio e l'abbandono da parte sua del ciclismo «che aveva
amato come epos dei poveri». Aveva smesso di vagabondare. Lo vedevo alla tv:
ed ero contento che partecipasse ai «giovedì del suo club»: che lo
attorniassero Missoni, Bolchi, Paleari: che avesse sempre successo. Non mi
facevo mai vivo. Mi rimproverava. Io non riesco a restare solo: sei un
vecchio saggio, mi diceva. Radio Popolare mi ha telefonato alle otto di ieri
mattina: ho provato un grande dolore. Come un'ansia di spavento.
MARIO FOSSATI