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"E con Brera il calcio si fece poesia"

Corriere della Sera 23/01/99

Da un lato la giustizia sommaria esercitata su di lui da molti intellettuali dall'altro la cieca devozione del giornalismo sportivo e degli amabili urlatori "naïf" dei bar italiani. Rileggere Brera significa perciò cercare di raddrizzare uno strabismo critico che poggia su due simmetrici apriorismi l'uno ostile, l'altro servile.

Da un lato, dunque, la sottovalutazione. E' vero che il Brera romanziere possiede qualcosa di volontaristico, come volesse mostrare a se stesso di poter praticare i generi "maggiori", ma non si può non vedere come la "fabula" entri prepotentemente, viceversa, proprio nelle prose giornalistiche, le sole in grado di eleggere il calcio a racconto senza i fastidiosi sovrassensi lirici di tanti mini-Pindaro della tribuna stampa. È vero inoltre che la sua erudizione lo esponeva a digressioni etnoantropologiche imbarazzanti o all'emissione di sconfortanti giudizi extra calcistici (come quello su Guittone nella"ArciBrera"); ma la sua intelligenza comparativa gli consentiva poi improvvise folgorazioni sintetiche (si veda, nello stesso testo, la riconduzione della forza espressiva di Sironi all'Antelami e ai "grandi primitivi" lombardi). Ed è vero, infine, che la sua scrittura a volte può non persuadere: ma è fuorviante bollarla come un esemplare degradato della funzione-Folengo. Semmai va notato come l'eccessiva facilità del flusso sfoci a volte, appunto, nell'approssimazione: facilità che non va mai a scapito, però, di una castità e durezza morfosintattica con cui Brera raffrena e incanala l'esuberanza dell'aggettivazione e della tensione neologistica . Ecco, se dovessimo trovare un'ascendenza, citeremmo, più dell'espressionismo maccheronico, la pietra romanica, che tale espressionismo innerva dal basso: il "rozzo e terrestre vigore dei templi lombardi in cotto" da lui amati La sua scrittura, nei momenti peggiori non immune da goffaggini, arriva cosi in quelli migliori a un non facile equilibrio tra sensualità e concretezza: si leggano l'incipit della stessa "Storia critica"; quello ancor più travolgente della storia dei mondiali ("il suo oggetto magico ricorda il mondo di Mercator,...); o il racconto di Italia-Germania 4-3.

Sull'altro versante, la sopravvalutazione. L'autorità di Brera si è infatti presto elevata a intimidazione controriformistica: basandosi su una visione del calcio suggestivamente ma violentemente soggettiva, Brera ha imposto come dogmi i precetti della sua prospettiva storico-estetica (sintetizzati nel mélange "catenaccio & contropiede"); e il suo dileggio verso le esperienze "alternative" alla sua visione (I'Ajax di Michels, il Belgio di This, I'Urss di Lobanovskij) ha portato a una sorta di monopolio ideologico. L'unica vera opposizione - troppo fragili quelle dei pochi colleghi eretici - si è avuta per ora solo dal campo, con l'apparizione di Arrigo Sacchi la cui rivoluzione ha mostrato l'opinabilità del Verbo breriano sul piano fisiologico (sconfessando l'inferiorità dei nostri atleti), su quello tattico (ricorrendo a un'inedita e inaudita fusione di zona, pressing e fuorigioco) e su quello "filosofico" (sostituendo il machiavellismo empirico con una mentalità più offensiva ed "europea"). Ai geniali neologismi breriani (libero, mediano, marcatura) si sono accostati i tecnicismi sacchiani (squadra corta, diagonale, sovrapposizioni): alla "difesa della sconfitta" come esasperazione attendistica s'è affiancata la "cultura della sconfitta" come rifiuto del risultato a tutti i costi: e alla visione "crociana" della poesia prima della struttura (la citata tecnica del singolo) ecco opposta la struttura come poesia: il primato del fraseggio, del movimento, dei sincronismi. Nonostante le isterie "antiscientiste" in particolare degli oppositori di "sinistra" la cesura sacchiana ha riguardato tutti, se persino ad un Ottavio Bianchi con il suo 10-0-0 è capitato di parlare di "organizzazione di gioco".

Sandro Modeo

 


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