BRERA VIEWS - COMMENTI E OPINIONI
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L'eredità di Visco in ventun voci di dizionario

(22 giugno 2001) Un ministro va, un altro subentra: è la democrazia, pare. Ma chi va lascia un'eredità. Anche Visco l'ha lasciata, e Tremonti ha già dichiarato che l’accetta con beneficio d’inventario. Eccolo, l'inventario, in ordine alfabetico.

Nicola Sardi

Agenzie delle Entrate: la nuova organizzazione territoriale degli uffici dell'Amministrazione finanziaria, grazie alla quale gli agenti-verificatori non percepiranno più "bustarelle", bensì legali provvigioni.

Bonus: i regali portati dal fisco ai contribuenti il Natale scorso, con il varo della Finanziaria per il 2001, fonte del buco di 30 mila miliardi.

Collaboratori coordinati continuativi: il loro reddito da quest'anno è stato del tutto assimilato a quello dei dipendenti delle società, anche se percepito per cariche di amministratori e di sindaci delle stesse, anche se da soci e/o da liberi professionisti. Tremonti ha già detto che l'equiparazione verrà subito abolita.

Dit: un piccolo alleggerimento dell'imposta sul reddito dell'impresa, quando risulta che i soci la finanziano con il proprio denaro e non con quello di terzi. Probabilmente sparirà con la prossima edizione della "Tremonti-bis".

Equalizzatore: l'astruso calcolo per determinare un virtuale guadagno da capital gain, che solo il suo inventore Visco e forse i suoi amici frequentatori più assidui hanno capito.

Fisco: Uguale Visco. Era una facile assonanza, che, stranamente, si continuava a ripetere anche durante l'ultimo anno di gestione alle Finanze del ministro Del Turco.

Giungla: delle scadenze fiscali, ormai inestricabile.

H: quello che tutti i consulenti fiscali hanno ammesso di avere solo capito, dopo un pur attento studio sull'equalizzatore.

Irap: l'imposta rapina, fortemente voluta e difesa da Visco, che la Corte Costituzionale ha appena dichiarato legittima, in quanto ha ritenuto che sia corretto individuare una capacità contributiva nel fatto di pagare dipendenti e interessi passivi, cioè di avere debiti (proprio le ragioni per le quali se ne chiedeva l'incostituzionalità).

Luciano Pavarotti: il caso d'evasione del noto tenore, che ha costituito materia di litigio tra Visco e Del Turco a causa del radicale diverso modo di volerlo (o non volerlo) affrontare. Sembra ripresentarsi anche con l'arrivo di Tremonti (caso "Concerti Pavarotti & Friends").

Modello F 24: il nuovo modulo per effettuare tutti i pagamenti (tranne l'Ici), indispensabile anche per eseguire le "compensazioni orizzontali e verticali" di imposte e di contributi, conseguenti all'invenzione della nuova dichiarazione con Unico (vedi più avanti).

Non abilitati: all’intermediazione fiscale in via telematica. Difficile trovarli dopo l’abilitazione concessa anche ai soggetti non iscritti ad Albi o Collegi professionali.

Onlus: la nuova qualificazione di un ente associativo per non pagare le imposte.

Pazze: l'aggettivo qualificativo delle cartelle di pagamento inviate sotto il regime Visco.

Questionari: ancora da inviare ai contribuenti per completare l’operazione "studi di settore".

Rimborsi: per lo più relativi alle annualità 1994-1995-1996, in quanto dopo sono diminuiti drasticamente grazie all’uso delle compensazioni con Modello F 24.

Statuto (dei diritti del contribuente): il nuovo "galateo" imposto a un'amministrazione finanziaria troppo maleducata.

Telematica: il nuovo modo nel terzo millennio imposto per dialogare con il fisco, a spese però del contribuente.

Unico (740, 750, 760): la nuova edizione dell'obsoleto Modello 740, 750, 760, finito in soffitta.

Visco (legge): il rifacimento, ben più complesso, della nota "legge Tremonti" che agevolava gli utili reinvestiti. Sparirà con la nuova edizione della "Tremonti-bis".

Zero: il costo che il fisco ha sostenuto per liberare i propri archivi dalle dichiarazioni, accollandone la conservazione ai consulenti dei contribuenti come conseguenza dell'obbligo dell'uso della "telematica".


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Vitaminic, una buona idea ma tanta strada da fare

(Giugno 2001) Che ne sarà di Vitaminic, l'impresa torinese che prometteva di rinverdire i fasti del tenore Caruso, quando la musica italiana dominava il mondo? Il suo fondatore, Gianluca Dettori, è addirittura assurto ai fasti della prestigiosa rivista americana Business Week, che ne ha inserito il nome nell'elenco dei cinquanta europei che contano.

Paolo Brera

Seguiva la solita storia rags-to-riches: Dettori, 34 anni, comincia la sua carriera professionale come batterista di un complesso che un decennio fa arriva addirittura a Sanremo. Invece di vegetare per il resto della sua vita, però, Dettori fonda Vitaminic – la risposta rispettosa dei diritti d'autore a Napster e ad Mp3.com. Obiettivo: diventare il primo fornitore online di musica d'Europa. Bum, bum, bum. Tre anni e molte acquisizioni dopo, il modello non si è ancora affermato come sicuramente vincente, anche se sono stati fatti diversi passi avanti con l'acquisizione di realtà importanti come (in ordine di apparizione) l'americana Iuma – la sigla sta per Internet Underground Music Archive, e rappresenta la principale comunità di artisti sul web, – FranceMP3 e l'inglese Peoplesound. Vitaminic ha firmato accordi con 750 case discografiche, fra cui tutte le maggiori, con Wind e con Omnitel.

Il modello di business di Vitaminic si basa sulla raccolta pubblicitaria (nel 2000, i 2/3 del suo fatturato), sullo sfruttamento dei dati degli utenti ai fini commerciali, sulla rivendita di contenuti e servizi tecnologico-infrastrutturali a siti e portali terzi (20 per cento del fatturato); sull’abbonamento a un repertorio selezionato di contenuti musicali (Music Club) scaricabili e/o fruibili in streaming; su servizi di marketing e promozione di contenuti, artisti, etichette (specie emergenti e indipendenti), sul commercio elettronico di alcuni contenuti audio-video non compresi nel pacchetto del Music Club.

Questo modello è ben concepito e Vitaminic dispone ancora di importanti risorse sia finanziarie sia d'immagine per metterlo in atto, tant'è vero che le ultime due acquisizioni sono avvenute sopra tutto offrendo carta (un aumento di capitale di Vitaminic stessa). Ma la strada da percorrere è ancora lunga, e sono già venute alla luce parecchie difficoltà: la piattaforma tecnologica non è più senza rivali, i contenuti non sono acquisiti una volta per tutte (le major della musica possono riprenderseli quando vogliono), gli abbonamenti sono ancora poco diffusi e poco redditizi, e – grazie alla tecnologia Adsl – si sta profilando la concorrenza delle web radio.

Secondo l'analista Ettore Iannelli, "La crescita di società come Vitaminic appare essere matura principalmente perché la maggior parte di esse ha assolto la sua vera missione: quella di confezionare una comunità di consumatori e produttori di contenuti musicali da vendere al gigante editoriale di turno".

A Torino non ci credono e proseguono per la loro strada. L'autofinanziamento (che non è ancora il pareggio di bilancio) è fissato per il 2002. Per ora Vitaminic sta spendendo cifre folli per il lancio: i ricavi 2000 sono stati 1.873.000 euro, ma il margine operativo lordo è stato pari a meno 24.581.000 euro, tredici volte tanto. Il primo trimestre si è chiuso con ricavi consolidati di 1.300.000 euro, il doppio del trimestre precedente ma pur sempre una frazione soltanto dei costi. Il MOL è stato negativo per 2.640.000 milioni. Unico dato molto positivo, la posizione finanziaria netta è di 24.140.000 euro. Insomma, c'è ancora parecchio grano nel fienile, e la società ritiene di avere le spalle coperte fino al 2002.

Dice Gianfranco Dettori: "Vitaminic è la seconda community musicale su Internet al mondo e la prima in Europa, con oltre 52 mila artisti alla fine di Aprile, cresciuti di quasi il 600 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, e con un vasto catalogo musicale di oltre 210 mila brani legali - organizzato in oltre 250 generi musicali". Non scordiamoci che è un batterista, e perdoniamolo dunque se fa rullare un po' il tamburo. In fondo, di tutte le società di musica su web, Vitaminic è davvero quella che va meglio. E nonostante gli attuali grattacapi, tra due anni potrebbe essere davvero una household brand.


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EdF potrà scalare Montedison

(Giugno 2001) Due notizie bomba sono piovute nella stessa giornata sulla Montedison: il responso (ancora non confermato) di Bruxelles sulla scalata di EdF e la più grande richiesta di risarcimento per danni ecologici della giurisprudenza italiana: 37 miliardi di euro, abbastanza di che far fallire la società e lasciare a popò-parterre EdF, Mediobanca e i (non più di) tre o quattro piccoli azionisti rimasti nella compagine sociale di Foro Buonaparte dopo il gran comprare di azioni che han fatto gli scalatori.

Paolo Brera

Lunga è stata la riunione della Commissione Europea sul caso EdF, e i risultati sono trapelati alla spicciolata. La Commissione ha deciso che non ci dovrà essere nessuna limitazione nazionale alla libera circolazione dei capitali, ma ha anche deliberato di far ricorso a tutti i mezzi di cui dispone l'Ue per eliminare le "asimmetrie" che esistono nel mercato europeo dell'energia.

In particolare il commissario al mercato interno, Fritz Bolkestein, ha ribadito l'interpretazione restrittiva all'utilizzo della golden share da parte dei governi che era stata fissata nel 1997 da Mario Monti. I governi, ha detto l'amico Fritz, hanno la facoltà di imporre limitazioni all'acquisto solo al momento della privatizzazione di una società. Una volta che questa è privatizzata, "le autorità pubbliche devono astenersi dall'intervenire". Ciò probabilmente significa che la Commissione vuole aprire la procedura per violazione del mercato interno contro Italia e Spagna, contestandone i rispettivi decreti anti-Edf.

Conseguenza: EdF può tranquillamente rimanere in Montedison e anche scalarla, se ci riesce, al solo prezzo (ipotetico) di veder liberalizzato il mercato francese, oggi del tutto captive. Ammesso, ma assolutamente non concesso, che la Commissione riesca ad imporre la sua volontà a un governo nazionale forte come quello di Parigi. E già dalle rive della Senna les chevaliers électriques fanno sapere che il loro obiettivo è quello di "creare il secondo gruppo energetico italiano" (to', ma la loro, ipsi dixerunt, non era una "partecipazione finanziaria"?) e per questo, ha detto il direttore generale di EdF Loic Caperan, "stiamo parlando con tutti gli azionisti senza privilegiare una logica di blocchi contrapposti: si tratta di Banca di Roma, del San Paolo, di Romain Zaleski e di Mediobanca e Intesa".

Tutto più facile, anche perché il SanPaolo-Imi, che detiene una quota del 4,4 per cento nel capitale di Montedison, ha deciso che si tratta di una partecipazione non strategica e ha dato mandato al presidente Rainer Masera di venderla. Due sono state le manifestazioni di interesse pervenute sul tavolo di Masera: Edizione Holding, la cassaforte dei Benetton, ed Electricité de France (ma to'…).

La tardiva vendetta di Vercingetorige non è andata giù agli italiani. L'Autorità italiana per l'energia ha avviato l'indagine conoscitiva sul caso Montedison-Edf. Lo ha annunciato il presidente dell'Authority, Pippo Ranci. Quanto al governo di Roma, il ministro delle Attività produttive, Antonio Marzano l'ha detto chiaro: "Noi andiamo avanti con il nostro decreto". Sulla stessa linea il ministro per le Politiche comunitarie, Rocco Buttiglione: "Può darsi che il decreto EdF sia stato una forzatura, ma si è trattato di legittima difesa contro una provocazione grave".

Nel frattempo, l'Avvocatura di Stato ha chiesto un risarcimento di 71.551 miliardi di lire al Polo Petrolchimico di Marghera, cioè alla Montedison, oltre ad un piano di risanamento della laguna veneta inquinata da anni di sfruttamento incontrollato. Il commento di Montedison sulla vicenda è stato lapidario: quella cifra corrisponde "al bilancio di un piccolo Stato" e potrebbe costringerla a portare i libri in tribunale. Ma la cosa, non nascondiamocelo, troverà quasi sicuramente una soluzione all'italiana.


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New Economy, strazio rimandato. O no?

(Giugno 2001) Tutto si potrà dire della New Economy italiana, salvo che sia uno show noioso. Al contrario, l'intrattenimento è assicurato. Nel mese di giugno è stato fornito da e.Planet, che dopo aver danzato sull'orlo dell'abisso per mesi è crollata, per così dire, al di qui dell'abisso: sarà salvata, ma con forti perdite per gli azionisti originari, sicché il titolo in Borsa è crollato. E nel frattempo è rimandato l'altro straziante appuntamento per i neweconomisti – una genia di investitori cicala, che per chissà quale strano motivo preferisce investire i propri soldi in aziende di fantasia anziché gettarli dalla finestra, che si fa prima – quello di Freedomland, che entro la fine del mese, dopo lo sprezzante ritiro di tutti i possibili soccorritori, produrrà un altro piano di rilancio a perdere.

Paolo Brera

Il 15 giugno scorso la società di telecomunicazioni e.Planet, dopo mesi di tira e molla, ha annunciato l'aumento di capitale che la trarrà d'impaccio evitandole il fallimento: verrà sottoscritto dai nuovi soci Athena Private Equity (un fondo lussemburghese costituito, tra gli altri, da Banca di Roma, Bnl, IntesaBci e Mediobanca), il fondo Angel Ventures di Gianfilippo Cuneo, la Sirti e Holger van den Henvel, mentre i vecchi azionisti di riferimento non parteciperanno. Ciò comporterà l'uscita di scena dell'attuale presidente Luigi Orsi Carbone (la sua partecipazione del 31 per cento si ridurrà al 2). L'intesa prevede che la maggioranza del consiglio di amministrazione sia formata da persone designate da Angel Ventures e che sia confermato nella carica di amministratore delegato Dario Cassinelli, il quale sottoscriverà una quota dell'aumento di capitale.

I 100 milioni di euro in arrivo consentiranno da un lato, la riduzione dell'indebitamento, e dall'altro la possibilità di dare respiro alle strategie aziendali. L'operazione, peraltro, non è piaciuta agli attuali azionisti.

Il problema è che il meccanismo della ricapitalizzazione prevede l'emissione di nuove azioni a un prezzo di poco superiore a un euro, quindi meno dell'1 per cento di quanto hanno pagato molti vecchi azionisti. Gli investitori inoltre hanno subordinato il loro intervento all'ottenimento della garanzia di sottoscrizione dell'eventuale inoptato da parte di una o più banche, fino a un massimo di 50 milioni di euro, all'ottenimento di linee di credito di 50 milioni di euro e all'esenzione dell'obbligo di Opa da parte della Consob, condizioni che il mercato giudica problematiche. Insomma, per gli azionisti di adesso il sacrificio è notevole e l'esito finale resta incerto, e la maggior parte ha quindi deciso di abbandonare la propria posizione, scatenando un'ondata di vendite.

Ovvio risultato: il titolo e.Planet è stato più volte sospeso per eccesso di ribasso e in due giorni successivi all'annuncio ha perso un quinto del suo valore, con un prezzo di equilibrio che si prefigura, per adesso, intorno ai 15-16 euro (da confrontare con i 120 del settembre scorso). Eppure l'idea di business non era in sé cattiva. Che cosa è mancato, allora? È presto detto: è mancato un minimo di realismo nella fissazione degli obiettivi e nell'apprestamento dei mezzi. Requiem, allora, per un caso di improvvisazione manageriale, il primo, ma certamente non l'ultimo, della New Economy italiana.


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Il "cavaliere bianco" di Montedison ha i colori di Benetton

(Giugno 2001) Quanti colori deve sfoggiare il cavaliere bianco chiamato a salvare una bella damigella (quotata in Borsa) da un terribile fiammeggiante drago? Se la damigella fa Montedison di nome e Mediobanca di cognome, e se il drago dragante emette le fiamme elettriche dell'EdF, tutti i colori. O se non tutti quelli dell'iride, che sommati darebbero appunto il bianco, perlomeno tutti gli united colors di Benetton. L'impresa di Ponzano veneto infatti è stata chiamata in soccorso da Maranghi, e a quanto pare sarebbe al centro di un complicato progetto di ingegneria finanziaria teso a mettere in salvo l'investimento di piazzetta Cuccia.

Paolo Brera

Vincenzo Maranghi, amministratore delegato di Mediobanca, sta cercando da tempo un partner per respingere EdF e gli alleati Zaleski e Deutsche Bank dalla compagine azionaria di Montedison. C'è il rischio, in effetti, che il decreto che ha sterilizzato la partecipazione del colosso pubblico francese non venga trasformato in legge dal Parlamento italiano entro la fine di luglio, data di scadenza del provvedimento. In teoria tutti i partiti, maggioranza e opposizione, sono a favore della manovra anti-EdF. Ma in politica, mai dire mai! Senza dire, poi, che il decreto è all'esame della Commissione europea, la quale, oplà, potrebbe benissimo cassarlo.

Il problema è che il paladino non può essere una qualsiasi società finanziaria, dev'essere un partner industriale che abbia un interesse precipuo nel settore. E bisogna fare in fretta, perché le banche azioniste di Montedison non sono tutte in ottimi rapporti con piazzetta Cuccia e oggi come oggi se ne stanno alla finestra, pronte a vendere al miglior offerente. Secondo voci di Borsa, ancora non confermate, Maranghi avrebbe trovato il candidato giusto nella famiglia Benetton. Questa avrebbe dato la sua disponibilità di massima a rilevare una quota di Montedison vicina al 15 per cento attraverso la cassaforte Edizione Holding, che ha già mostrato interesse per il settore dell'energia. A cedere le azioni sarebbero Banca di Roma (5,37 per cento), SanPaolo-Imi (4,4 per cento), Banca Intesa (3,5 per cento) e Unicredito (0,9 per cento).

A quel punto EdF verrebbe messa nell’angolo ma potrebbe comunque, facendo blocco con Zaleski e con Deutsche Bank, esercitare un pestifero diritto di veto in ogni assemblea straordinaria. Per questo motivo, secondo le ipotesi formulate dal principale sito italiano di voci di Borsa, Borsa_rumors, la fase successiva del piano di Mediobanca contemplerebbe la fusione tra Aem Milano ed Edison-Sondel; e successivamente, nel caso in cui non si arrivasse ad un accordo con i francesi (al quale risulta che Maranghi continui intanto a lavorare come second best), tra la nuova Edison e Montedison. Mediobanca, che tramite Edison ha ufficialmente il 4 per cento della municipalizzata milanese, avrebbe in realtà messo insieme un numero cospicuo di pacchetti di Aem suddivisi presso i propri alleati, in modo da arrivare a controllare circa il 15 per cento della municipalizzata. Dalla fusione tra Aem Milano e Edison verrebbe fuori un gruppo con circa 11,4 miliardi di euro di capitalizzazione.

Non tutti pensano che questo sia davvero il piano di Maranghi. "Quindici anni fa, quando nell'87 fondai la Sondel, già si parlava di un dossier di Mediobanca. L'ipotesi "Superedison" non mi sembra realistica". Così il presidente della Aem Milano, Giuliano Zuccoli, ha commentato le indiscrezioni di stampa circa la costituzione di un grande polo energetico anti-EdF. Il sindaco di Milano Gabriele Albertini ha invece subito confermato la sua intenzione di cedere il controllo della municipalizzata, non appena il Governo porrà le condizioni normative per farlo.

Come andrà a finire? La vicenda EdF-Montedison è emblematica della difficoltà di completare il progetto di un mercato comune. Troppo comodo arroccarsi in quella che dovrebbe essere solo una frazione del complessivo spazio economico – l'economia della Francia, dove solo EdF può legalmente produrre energia elettrica – e di lì compiere incursioni e scorribande negli altri Paesi, acquisendone le imprese a suon di miliardi intascati in regime di monopolio. Ma la vicenda è anche la spia dell'incapacità di Mediobanca di gestire il proprio impero come soleva. Paradossalmente, l'affaire EdF scaturisce sia dallo sviluppo del mercato che dalla sua arretratezza. Il problema, e si spera che alla Commissione Europea se ne facciano carico, è di andare avanti.


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Allez les Verts! Et branchez-vous sur Montedison

(Maggio 2001) Che strani annibali, quelli di EdF che martedì 22 hanno annunciato all'Urbe e agli orbi che sì, effettivamente hanno una bella fetta della Montedison, il 20 per cento. Sono annibali che non parlano fenicio ma un dolcissimo francese eppure egualmente, quando sono alle porte, spaventano. Nei giorni scorsi in Italia è stato tutto un levar di scudi contro questa incursione gallica in uno dei territori più sensibili, quello dell'energia elettrica.

Paolo Brera

Vediamo i fatti. Dopo l'acquisizione della Falck, Montedison è un contenitore dove stanno riposti in buon ordine Edison e Sondel (energia elettrica), Eridania-BéghinSay (alimentare) e Fondiaria-Milano Assicurazioni. Due mesi fa sulle azioni di questa scatola dorata si è scatenata la corsa all'acquisto del finanziere franco-polacco-bresciano Eugène Zaleski, con diversi alleati. Due settimane fa ha cominciato a correre la voce che dietro di lui ci fosse in realtà Electricité de France, il potente monopolio pubblico dell'energia elettrica di un Paese confinante.

Poi, nel giro di pochi giorni, sono giunte a raffica le conferme. L'ultima: EdF detiene addirittura un quinto di Montedison. "Si tratta di un'operazione finanziaria", dice il comunicato dei francesi: "assumere una posizione nel capitale di una holding che ha in portafoglio attività importanti nell'energia. Edf considera che il livello della quota riflette bene l'obiettivo fissato all'inizio dell'operazione" e di cui i mercati azionari, in barba alla trasparenza ma secondo EdF nel pieno rispetto della legge in vigore, non erano stati minimamente informati. Non c'è scritto Allez les Verts (l'espressione che in Francia corrisponde al nostro Forza Azzurri!) ma lo si può ben intuire.

"Ma quale operazione finanziaria!", hanno obiettato in desolato e/o indignato coro gli italiani delle più diverse sponde. "Qui si tratta di colonizzazione bella e buona! (anzi, brutta e cattiva!)" EdF approfitta della sua posizione di monopolista su un mercato nazionale non liberalizzato, quello francese, per ghermire innocenti imprese del settore su mercati che liberalizzati invece già sono. Come la Spagna, per esempio, dove però l'offerta lanciata dalla controllata tedesca di EdF, la EnBW, e da Ferroatlántica su Hidrocantábrico si è scontrata con la decisione del ministero dell'Economia di bloccare i diritti di voto facenti capo ai francesi.

Del resto, che una quota del genere in una società grande come Montedison non possa essere una semplice operazione finanziaria è reso clamorosamente evidente dallo stesso bilancio di EdF. "Edf esercita un'influenza significativa quando detiene, direttamente o indirettamente, almeno il 20 per cento dei diritti di voto della società consolidata", si legge papale papale nelle note conclusive, là dove sono illustrati i principi di consolidamento. Mica si dice che sono investimenti finanziari. Quel genere di affermazioni è riservato a noi italiani.

Quel che si profila adesso è uno scontro rapido seguito – se non sarà stato risolutivo – da un periodo di guerriglia finanziaria.

Lo scontro rapido vedrà vari provvedimenti del governo italiano e reazioni di Parigi e di Bruxelles, dove la Commissione Europea segue da vicino la faccenda. Non si sa come si metteranno le cose. Il presidente della Commissione europea Romano Prodi ha già fatto sapere che in questa fase la Ue non può intervenire. "Noi avevamo detto al vertice di Stoccolma che sorgevano dei problemi se qualcuno utilizzava la propria forza monopolistica interna per fare acquisti all'estero", ha detto Prodi ai giornalisti in occasione della cerimonia di conclusione del Master in International Finance presso il Collegio Borromeo di Pavia. "Credo che questo (Montedison-Edf) sia un caso che obblighi a pensare a fondo, proprio perché non c'è simmetria. Devo dire che sono perfettamente d'accordo col commissario europeo Mario Monti sul fatto che noi (Unione europea) non abbiamo strumenti di intervento in questa fase e in questa situazione".

La guerriglia è, semplicemente, nei numeri. Gli alleati di EdF dispongono di una minoranza qualificata sufficiente a bloccare le operazioni straordinarie, notamment qualsiasi ristrutturazione di Montedison, e quindi rompere non poco (le uova nel paniere) a Mediobanca. Per non farlo, chiederanno qualcosa.

La chiave di volta potrebbero essere le banche azioniste di Montedison, se decidessero a questo punto di sposare la causa di Mediobanca dopo averne bloccato, lo scorso 27 febbraio, il progetto di fusione Montedison-Falck. In questo caso, EdF resterebbe con un grosso investimento immobilizzato, dotato di un potere di veto e nulla più.

Nonostante i tamburi di guerra, gli analisti credono però che le parti riusciranno a trovare un accordo, e già delineano le prime possibili soluzioni. "Sono convinto che alla fine Mediobanca farà un accordo con i francesi per la gestione industriale della parte energetica, mentre per le altre partecipazioni, Fondiaria ed Eridania, si deciderà la cessione", ha detto all'agenzia Reuters l'analista di una grande sim milanese. E a quel punto cesserebbe anche l'attrito fra Italia e Francia che sta muovendo i primi passi proprio ora, e che rappresenterà la prima gatta da pelare (anzi, chatte à fouetter) del nuovo governo di Sua Emittenza.


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Gratuito patrocinio: con una mano si dà e con l’altra si toglie… ma, stavolta, è proprio una svista! (?)

(Maggio 2001) Per modificare la legge che amplia il gratuito patrocinio per i non abbienti, cioè fornire l’assistenza legale nel processo penale senza spese a chi è considerato "povero", il Parlamento ha sì innalzato il limite di reddito massimo per averne diritto da 8 a 18 milioni, ma, contemporaneamente, ha soppresso, sembra per una "svista", l’esenzione fiscale, cioè la non applicazione di bolli, marche, diritti e registrazione, per le cause di lavoro, stabilita fin dal lontano 1973 e sempre considerata un caposaldo etico di tale processo.

Nicola Sardi

Con un inspiegabile comma, che potremmo definire figlio illegittimo, in quanto non si sa da chi sia stato proposto e del quale peraltro non si trova alcuna traccia nei lavori preparatori, nè in sede di discussione della legge, si è stabilito che ogni dipendente che vorrà fare causa al suo datore di lavoro, da luglio 2002 dovrà pagare il nuovo contributo unificato per gli atti giudiziari, i diritti di notificazione, l’imposta di registro sulle sentenze, ecc., ecc., cioè almeno un milione di lire.

Il bello è che quest’ennesima "perlina", d’ intervenire cioè per diminuire un onere per il cittadino ponendolo a carico della Stato, prelevando però le risorse stesse necessarie da qualche nuovo "balzello", sembra che non sia stata, stavolta, voluta, ma frutto solo di un macroscopico errore. Vediamo com’ è andata.

La proposta di nuova legge per il gratuito patrocinio proviene da Gaetano Pecorella (Forza Italia), mentre il governo è intervenuto per proporre un maxi-emendamento per la parte civilistica, tra cui, forse, l’ignominioso "comma".

Marianna Li Calzi, sottosegretario alla giustizia che ha curato la stesura del maxi-emendamento, ha risposto così alle critiche: "abbiamo unito la proposta di Forza Italia a un nostro disegno di legge: non escludo che nel fare il collage sia nato qualche pasticcio". E, dall’altra parte, lo stesso relatore della legge, il deputato di Forza Italia Michele Saponara, ha peraltro confermato: "pur di approvarla, l’abbiamo fatta un po’ alla buona".

Sembrano tutti d’accordo, dunque, sul fatto che si sia trattato di un errore, per il quale, come di solito avviene in Italia, comunque nessuno risponderà… Salvo i circa 300 mila dipendenti che, ogni anno, promuovono una controversia di lavoro!

Non è che invece qualcuno avrà pensato che sono troppi?


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Il Cavaliere fece l'impresa, ma senza stravincere

(Maggio 2001) Molta voglia di festeggiare il risultato la Borsa di Milano l'ha dimostrato né il primo giorno dopo le elezioni né in quelli immediatamente successivi, anche se il programma di Berlusconi non aveva nulla che potese dispiacere i signori della finanza. L'effetto-Florida degli interminabili conteggi di voti aveva a lungo impedito di rendersi conto esattamente della forza della Casa delle Libertà e dei suoi eventuali condizionamenti. Ma anche dopo, quando tutto questo era molto più chiaro, egualmente non c'è stata euforia.

Paolo Brera

"Così cambierò l'Italia", aveva fatto titolare il suo settimanale, Panorama, un sorridente Berlusca. Promesse: cinque "grandi missioni" e cinque "grandi strategie": tra queste dieci grandiloquenti cose molte riguardano l'economia, a cominciare dal piano decennale per le grandi opere – strade, ferrovie, ponti, metropolitane, reti idriche, difesa del territorio e valorizzazione del grande patrimonio ambientale e artistico. Ma su tutto questo peseranno, e non poco, le compatibilità del bilancio.

La semplificazione normativa è un'altra delle grandi priorità del governo. L'economia italiana oggi soffoca sotto il peso di leggi e altre norme pignole e vaste come l'Oceano: si tratterà di semplificare e rendere coerente l'insieme con un lavoro di codificazione il cui rilievo economico è certo. Della semplificazione farà anche parte la riduzione del numero delle imposte da circa 100 a 8 soltanto, con l'abolizione di alcuni balzelli particolarmente impopolari e controproducenti.

Il programma della destra comprende anche alcune misure sociali: innalzamento delle pensioni minime a un milione di lire al mese (516 euro) e affrancamento da ogni imposta per le famiglie con reddito inferiore a 20-22 milioni. C'è poi un "piano per la scuola, per l'alfabetizzazione digitale e per la ricerca scientifica" i cui primi passi, comunque, dovranno consistere semplicemente nell'introduzione di voucher per parificare l'insegnamento privato (in pratica, l'insegnamento religioso) a quello statale.

La Borsa non ha dato un gran credito alla lista dei settori che dovrebbero essere avvantaggiati dal cambio di governo, né a quella dei settori supposti svantaggiati, come le telecomunicazioni. Gli operatori sono stati cauti anche perché le dimensioni del successo personale del tyoon di Arcore non sono state quelle che si sarebbero potute pensare anche solo due mesi fa. Addirittura nel collegio uninominale Milano Uno, un collegio di gente con i soldi, la sua vittoria su Gianni Rivera è stata con il 53 per cento. Niente landslide, dunque, così come non c'è stato niente di valanghiero neppure a livello nazionale.

La grande incognita resta l'atteggiamento degli altri Paesi europei e della comunità internazionale del business, che è divisa ma in buona parte, e l'incognita è appunto quanta parte, sembra condividere le posizioni berluscoscettiche dell'Economist. Nei prossimi giorni e mesi la Borsa dovrà digerire per bene la nuova situazione; la prima settimana è stata soltanto, per così dire, l'aperitivo.


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Montedison, ultimi fuochi in vista del 15

(Maggio 2001) Montedison è ancora al centro di una battaglia di Borsa. I due schieramenti – Mediobanca da una parte, una coalizione guidata dal finanziere franco-polacco Romain Zaleski dall'altra – cercheranno la resa dei conti definitiva all'assemblea del 15 maggio prossimo. Sul riaccendersi della pugna hanno influito anche le vicende delle Generali, perché la rimozione di Desiata avrebbe indotto il presidente di Banca Intesa Giovanni Bazoli ad assumere una linea ostile a Mediobanca.

Paolo Brera

Ora, Bazoli non solo è azionista della Montedison – con il 4,62 per cento detenuto direttamente e un altro 3 per cento in gestione fiduciaria attraverso Intesa International – ma ha anche le risorse per fare da ago della bilancia. Se anche lui si sia messo a comprare azioni Montedison non si sa. Fatto sta che dal 27 febbraio al 4 maggio è passato di mano il 67 per cento circa del capitale della società contesa. Il controvalore delle contrattazioni ha superato i 3 miliardi di euro. Dal giorno della bocciatura del progetto di integrazione di Falck il titolo ha guadagnato a Piazza Affari oltre il 40 per cento, registrando una performance relativa rispetto al Mib30 del 49 per cento.

Tutto questo ancora non ci dice quale sia la forza rispettiva dei due schieramenti, anche perché – per evitare lo scomodo obbligo di dover lanciare un'Opa – tutti quanti smentiscono di agire di concerto. Insomma, più o meno per caso gli acquirenti si sarebbero accorti tutti insieme di quanto è bellina la società di piazzetta Bossi. Le valutazioni dei cognoscentes (la situazione è stata studiata anche da Donatella Principe, responsabile della ricerca economica presso il centro studi del Gruppo Banca Popolare di Vicenza) dicono che Mediobanca ha intorno al 50 per cento, il fronte opposto il 33, dunque una minoranza di blocco che può impedire operazioni straordinarie sul capitale.

E questo oggi è importante, perché la Montedison – una conglomerata le cui attività spaziano dall’elettricità all’agroalimentare fino alle assicurazioni (con Fondiaria, Edison ed Eridania tra le principali partecipazioni) – si è dovuta caricare di enormi debiti per portare a compimento la fusione, non troppo gradita al mercato, con la controllante Compart, e di operazioni straordinarie potrebbe avere presto bisogno. L'attuale situazione debitoria è particolarmente seria per una holding che vive di dividendi e le cui partecipazioni sono a vario titolo poco adatte a fungere da cash cow (tranne la Edison, tutte le controllate attraversano un momento difficile).

L'operazione che ha fatto venire al pettine i nodi della matassa Montedison-Mediobanca e il risentimento per una gestione disattenta agli interessi dei soci è stata l’Opa sulla Falck. L'Opa è stata giudicata vantaggiosa solo per la famiglia Falck (nonostante il concorde giudizio positivo sul piano industriale, basato sulla fusione Edison-Sondel), ed è stata bocciata in Assemblea perché Banca di Roma e Banca Intesa hanno fatto venir meno il loro appoggio a Mediobanca. Conseguenza: molti hanno concluso che, non essendo compatto l’azionariato, Montedison era contendibile: e con essa, implicitamente, anche alcune partecipazioni.

La posta in gioco, al di là del grande Risiko dentro e fuori piazzetta Cuccia, è la possibilità di creare un nuovo mega-polo dell'energia e del gas naturale: l’idea è appetibile sia per i player stranieri (che guadagnerebbero una validissima testa di ponte nel mercato energetico italiano) che per gli italiani (gli imprenditori dell’acciaio e dell’alluminio della provincia bresciana, una zona che divora energia). Per arrivare a questo, e per rientrare dall'enorme debito, il vincitore potrebbe decidere di cedere la Fondiaria, un boccone pregiato. Il relativo titolo, peraltro, in Borsa non sembra reagire gran che a questa possibilità. O sarà solo questione di tempo?


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E' meglio giocare in casa… che alla Corte di Strasburgo

(Maggio 2001) È noto il detto: "i panni sporchi si lavano in famiglia", e così l'Italia si è adeguata. Parliamo dei processi innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo – instaurati dai cittadini per lamentare gli irragionevoli, interminabili tempi della nostra giustizia – nei quali infatti il governo italiano è sempre stato inesorabilmente condannato.

Nicola Sardi

Detto e fatto! Con la legge n. 89/2001, entrata in vigore dopo la gita di Pasquetta, il Parlamento ha in concreto ritirato dalla scena europea i propri panni sporchi, inibendo ai cittadini di rivolgersi ancora alla Corte di Strasburgo, ingolfata e contagiata ormai dal "caso Italia", imponendo invece di chiedere il risarcimento per i danni derivanti dall’irragionevole durata di un processo che si sia svolto sul proprio territorio (secondo i canoni di giudizio di Strasburgo, praticamente quasi tutti) alle proprie Corti d'Appello.

Questi giudici interni faranno praticamente da filtro alle richieste risarcitorie, pronunciandosi entro quattro mesi dalla domanda (staremo a vedere!) sul diritto del richiedente all'equa riparazione. Solo se la domanda non verrà accolta, allora il cittadino potrà rivolgersi alla Corte Europea, ove, siamo sicuri, l'avvocato Vitalino Esposito, che difende il governo italiano a Strasburgo, cercherà finalmente di vincere qualche causa esibendo la sentenza della Corte d'Appello che ha sancito la precedente vittoria "casalinga" ottenuta dal governo (sull'argomento recentemente, su queste stesse pagine: "L'avvocato delle cause perse").

Il ricorso a Strasburgo, che peraltro, in assenza di un obbligo di essere patrocinati da un avvocato, può essere inoltrato direttamente dalla parte, potrà dunque essere proposto solo dopo l'esaurimento delle cosiddette "vie di ricorso interne" riconosciute dalla nuova legge ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla decisione della Corte d’Appello.

Inoltre la nuova disposizione offre anche la graziosa (e forse un po’ subdola) facoltà a chi abbia un ricorso pendente a Strasburgo che non sia stato ancora dichiarato ricevibile dalla Corte, di abbandonarlo entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge, per proporre il ricorso internamente alla Corte d'Appello competente. Ma in Italia, ahimè, sappiamo che per chiedere giustizia occorre obbligatoriamente rivolgersi ad un avvocato.

Restano poi le immancabili perplessità sui fondi, apparendo invero assai esigui quelli stanziati, in relazione al prevedibilmente elevatissimo numero di richieste, anche in considerazione del fatto che la legge stabilisce che essi potranno essere erogati solo fino a loro esaurimento, poi non si sa…! Ma forse, il legislatore è assai ottimista sul fatto che i propri giudici sapranno opporre un efficace filtro alle pur numerose domande.

E se il ricorrente ottiene ugualmente dal giudice italiano la condanna al risarcimento del danno e non ci sono più fondi per pagarlo? Poco importa: poi tanto, come al solito, il cittadino vittorioso dovrà inoltrarsi nell'ulteriore ginepraio delle esecuzioni forzate nei confronti della pubblica amministrazione, campo nel quale il legislatore, ancora di recente (su questo sito: "Tra le pieghe della Finanziaria, Amato aumenta il potere dello Stato di angariare il cittadino"), non ha perso occasione per ulteriormente vituperare il suo povero suddito!


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Piazza degli Affari ha voglia di risalire

 

(Aprile 2001) La Borsa italiana torna a sentire il prurito di crescere. È senz'altro troppo presto per dire se siamo già di fronte a una ripresa durevole oppure solo a un rally, ma è già abbastanza chiaro che non si tratta di un semplice soprassalto. La principale indicazione di breve periodo in questo senso è il decoupling che si è verificato rispetto a Wall Street e in particolare al Nasdaq, la cui evoluzione nei mesi scorsi (anzi, negli anni) spiegava buona parte dell'andamento di Piaza degli Affari, per motivi abbastanza misteriosi ma, stando ai dati, inoppugnabili. All'inizio di aprile del resto è avvenuto a più riprese che il listino italiano ignorasse bellamente quanto succedeva oltre Oceano.

Paolo Brera

Da due o tre settimane, del resto, Milano tende a scendere poco quando scende e a salire anche in presenza di notizie negative. C'è qualche giustificazione per questo andamento della Borsa? In realtà sì. Molti problemi dell'economia si sono alleviati negli ultimi tempi, a cominciare dalla bolletta energetica. Il prezzo del barile oggi è di quattro dollari inferiore a quello medio del 2000, e non pare vi sia spazio per nuovi e consistenti aumenti, nonostante le parole di fuoco che si sentono ai vertici Opec. I rincari hanno poi già determinato una riduzione della domanda: con il dato di marzo, i consumi petroliferi del primo trimestre hanno segnato un calo del 5,4 per cento. Secondo l'Ice, anche la bilancia commerciale dovrebbe far registrare nuovi saldi attivi nel 2001, dopo gli sbandamenti di fine anno.

Gli imprenditori italiani si compiacciono anche della situazione dell'euro, la cui debolezza favorisce alcune esportazioni in cui l'Italia è ben piazzata a livello internazionale. I tassi di interesse sulla moneta unica sono, per i produttori italiani, storicamente molto bassi, e non causano grossi problemi.

Nel comparto del lavoro, le misure introdotte dal governo – pure molto limitate e come tali criticatissime dagli industriali – qualche risultato l'hanno dato, come si vede dalle cifre sulla disoccupazione, il cui tasso è in discesa e ha già superato la barra psicologicamente significativa del 10 per cento della popolazione attiva. Anche il processo di investimento procede a ritmo abbastanza vivace nell'economia, e si dirige sopra tutto verso i settori avanzati dell'offerta (informatica e telematica). Non è da sottovalutare, infine, l'effetto psicologico della probabile vittoria alle prossime elezioni del Polo delle Libertà, percepito dagli imprenditori come molto vicino alle loro ragioni.

Globalmente, la situazione economica non sembra tesa come l'anno scorso, quando il deterioramento dei fondamentali sembrava non doversi mai arrestare. Se questa ripresa della Borsa dovesse dimostrarsi qualcosa di più di una rondinella fuori stagione, le prospettive a medio termine sarebbero a loro volta abbastanza promettenti. Può essere istruttivo, infatti, leggere quanto scrive Morgan Stanley sul settore bancario italiano: "L'Italia oggi è in una fase anticiclica per quanto riguarda la crescita bancaria perché le piccole e medie imprese, che sono il motore economico del Paese, hanno ripreso a chiedere prestiti per fare investimenti, grazie al ribasso dei tassi di interesse in atto dal '96. Nel medio termine ci sarà poi una crescita del risparmio gestito, soprattutto attraverso lo sviluppo nei prossimi dieci anni dei fondi pensione e assicurativi. Del resto, la propensione al risparmio degli italiani resta tra le più alte al mondo, solo che ora dal deposito bancario o conto corrente si passerà al mercato dei fondi che a sua volta darà ossigeno al mercato borsistico, alimentando così un circolo virtuoso". Non è poi così usuale trovare tanto ottimismo nei rapporti sull'Italia delle agenzie internazionali. Solo un'altra rondine? Per la verità, potrebbe anche essere la primavera.


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La battaglia per Montedison prepara quella per le Generali

(Aprile 2001) A cavallo tra marzo e aprile per Piazza degli Affari è transitato più di un ottavo del capitale Montedison, come dire quasi un terzo del flottante. Troppo per poterlo spiegare solo con le normali oscillazioni della domanda. La realtà, come sanno tutti gli operatori, è che qualcuno sta rastrellando i titoli. Per la precisione, a farlo sono due gruppi: da una parte gli azionisti vicini a Mediobanca, del cui impero fa parte la conglomerata milanese, dall'altra Roman Zaleski e il gruppo Strazzera. I loro raid hanno fatto salire il prezzo dell'azione ordinaria da 2,27 a 2,78 euro nel giro di un mese. Si sa anche che molte partite hanno attraversato la frontiera svizzera e si trovano ora al di là di essa, al riparo della riservatezza elvetica, e questo aggiunge un altro po' di mistero alla vicenda.

Paolo Brera

Molti altri particolari non si sanno, ma quello che si sa è, dopo tutto, l'essenziale. Quello che si celebra in Montedison è uno dei tanti duelli, anzi il più importante dopo quello che si preannuncia in Generali, che nei prossimi mesi dovranno ridefinire il limes dell'impero di Mediobanca. L'attuale governance dell'impresa è un mosaico di piccole partecipazioni tenute insieme dal mastice di piazzetta Cuccia. Con l'incorporazione della Falck sono però entrati nel capitale alcuni nuovi azionisti scomodissimi e ingombranti, appunto gli Strazzera e Zaleski. La Banca di Roma starebbe dalla loro parte e finanzierebbe i loro acquisti di azioni.

L'amministratore delegato di Montedison, Enrico Bondi, ha rilasciato nei giorni scorsi dichiarazioni su tutti i temi caldi. Le dichiarazioni non erano troppo precise, ma hanno lasciato aperte alcune ipotesi. "Siamo in attesa di una decisione della Consob sulle Opa residuali di Falck e di Sondel", ha detto Bondi. Queste Opa richiederanno soldi, non carta (cioè azioni Montedison) come si prevedeva fino alla bocciatura dell'aumento di capitale, il mese scorso. Però il gruppo è già abbastanza indebitato: circa 7,75 miliardi di euro. Al riguardo Bondi ha detto che gestirà questo debito "come fa ogni buon padre di famiglia". Per ridurre l'esposizione, si dice in giro, Montedison potrebbe cedere Milano Assicurazioni al gruppo Bz del finanziere svizzero Martin Ebner – e questo Bondi non l'ha smentito.

Del resto se il management è su questa lunghezza d'onda, in Montedison roba da cedere ce n'è davvero tanta. La società è di fatto una collezione di pacchetti di controllo di imprese eterogenee. La fetta di attività che più facilmente potrebbe essere tagliata via e venduta è il comparto assicurativo, con la Fondiaria e la Milano Assicurazioni, entrambe risanate e oggi appetibili.

Assicurazioni, basta la parola e subito spuntano le Generali. Alla fine del mese si terrà l'assemblea del Leone di Trieste, e potrebbe essere l'occasione per la riapertura delle ostilità sull'amministratore delegato. Antoine Bernheim vuole tornare al vertice e avrebbe l'appoggio del finanziere bretone Vincent Bolloré, che è entrato nel capitale di Consortium e quindi ha una (piccola) voce in capitolo dentro Mediobanca. Al fianco dell'attuale numero uno delle Generali ci dovrebbe essere la Fondazione Cariplo, che agirebbe per conto del numero uno di Intesa, Giovanni Bazoli.

Mediobanca, invece, che due anni fa aveva segato Bernheim e lo aveva sostituito con Desiata, sembra abbia voglia di tornare sui suoi passi. Può darsi che ciò rientri negli accordi stretti con Lazard al momento della cessione delle quote di quest'ultima in Generali e in Mediobanca stessa. E può darsi anche che le quote all'interno di Montedison siano merce di scambio per Generali, e che sia questo il motivo dell'effervescenza delle ultime settimane. In ogni caso, anche chi non ha un interesse diretto nei casi di Mediobanca può aspettarsi, a breve scadenza, un po' di sano intrattenimento borsistico. Almeno quello.


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Calendario fiscale 2001, la montagna e il solito topolino

(Marzo 2001) Fin dall’autunno scorso, il ministro delle Finanze Ottaviano Del Turco si era posto il problema di stendere il calendario fiscale per il 2001, con il lodevole obiettivo di evitare la giungla di scadenze che in questi ultimi anni aveva caratterizzato la tempistica fiscale e reso assai intricato il cammino del contribuente e degli stessi addetti ai lavori.

Nicola Sardi

Per fare ciò, aveva convocato proprio gli addetti ai lavori, cioè i rappresentanti delle categorie professionali che, normalmente, prestano l’assistenza e la consulenza al contribuente, per aprire con loro un tavolo di confronto. Un segnale forte, oltre che di democrazia, anche dell'intento di effettivamente migliorare l’agenda degli adempimenti fiscali per l’anno a venire, con un intervento tempestivo.

Apprendiamo ora che le principali scadenze da fissare, cioè quelle del pagamento e della presentazione dell’ormai noto Modello Unico - persone fisiche e società di persone, sono le stesse dell’anno precedente: stante il cronico ritardo nella pubblicazione dei modelli, il pagamento potrà avvenire entro il 20 giugno senza alcuna maggiorazione, mentre, dopo tale data, fino al 20 luglio, con maggiorazione dello 0,40 per cento; presentazione del modello cartaceo a banche e poste – per quei pochi sopravvissuti che possono ancora non presentare il modello telematico (è questa la vera novità dell'anno, cioè l'obbligo d'invio telematico delle dichiarazioni quasi per tutti) – entro il 31 luglio; per tutti gli altri, presentazione della dichiarazione in via telematica entro il 31 ottobre.

Eppure l'8 marzo Del Turco, essendosi accorto che, da diversi anni, esistono delle scadenze di pagamento fiscali e contributive anche al 16 agosto, aveva rilasciato una dichiarazione d'intenti di voler spostare tale scadenza, "per non rovinare le vacanze a contribuenti e professionisti e per permettere ai cittadini di godere con maggiore tranquillità il periodo di Ferragosto".

Il fatto che anche il signor ministro avesse scoperto l'assurdità di una simile scadenza, e avesse rilasciato una dichiarazione così distensiva, lasciava certamente supporre che fosse allo studio un provvedimento destinato ad intervenire in maniera ben incisiva sull'intero assetto del calendario fiscale. Ma così non è stato. Anzi, notiamo anche come venga ancora ripresentato un tipico difetto dei precedenti scadenzari: l'accorpamento di diversi adempimenti in un'unica data: difatti al 2 luglio scadrà l'obbligo di presentazione telematica delle dichiarazioni periodiche Iva relative al I trimestre 2001 e l'obbligo di presentazione telematica delle dichiarazioni annuali non unificabili dei sostituti d'imposta e dell'Iva. E le vacanze? Le trascorreremo belli rilassati – ma solo dopo l'ultima scadenza.


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Riparte alla grande il Risiko Bancario

(Marzo 2001) Riparte alla grande il Risiko bancario – il processo di accorpamento e ristrutturazione fra le banche del nostro Paese – con le decise mosse del Monte dei Paschi di Siena su Bnl e del SanPaolo-Imi di Torino su Banca Cardine, proprio mentre dalla Banca d'Italia torna a farsi sentire un monito sulla necessità, per il sistema creditizio, di non procedere a nuove fusioni prima di aver fatto funzionare davvero quelle realizzate negli scorsi due anni.

Paolo Brera

Nella seconda settimana di marzo i vertici Montepaschi hanno annunciato un'intesa con la Popolare di Vicenza per acquisire una quota del 4,75 per cento del capitale Bnl. Alla Vicenza resterà un pacchetto superiore al 3 per cento e una presenza nel cda Bnl, che nel fratempo – per bocca del presidente Luigi Abete – ha dato via libera all'operazione. Fonti vicine agli spagnoli del Banco di Bilbao e Vizcaya, il maggiore azionista in Bnl, di cui si temeva l'eventuale opposizione, avrebbero invece mostrato di gradire il Monte dei Paschi come partner.

Di una vera e propria fusione però si potrà parlare solo quando la Fondazione del Monte dei Paschi sarà scesa sotto il 50 per cento del capitale della banca senese. A Siena infatti esiste anche un problema politico: la Fondazione è guidata di fatto dalle autorità locali, che sono di sinistra. Nell'imminenza di elezioni che inclineranno il governo in tutt'altra direzione, si percepisce una certa fretta per definire gli assetti e far trovare al Berlusca tutti i giochi già fatti, blindati e inchiavardati. Per questo il Montepaschi ha sciolto i suoi legami con la Sai (una compagnia di assicurazione più o meno infeudata a Mediobanca) e ha dato vita a un'alleanza organica, con fior di scambi azionari, con la Unipol, che affianca invece il sistema delle cooperative rosse. Una piena aggregazione Montepaschi-Bnl creerebbe il blocco di interessi più forte del settore finanziario italiano dopo quello che ruota intorno a Mediobanca.

L'acquisizione riapre i giochi su Banca Cardine, un gruppo molto forte nelle regioni adriatiche, con cui Bnl (che ha da poche settimane divulgato risultati economici piuttosto buoni, con un Roe del 12 per cento) sta cercando rapporti più stretti. Il gruppo Cardine (nato da una serie di fusioni) è tra le prime dieci realtà creditizie d'Italia, con un attivo di 36,4 miliardi di euro, oltre 750 sportelli distribuiti in nove regioni e 1.600.000 clienti. Ad esso però è interessato anche il SanPaolo-Imi, di Torino, che ne ha di recente acquisito una quota intorno al 10 per cento e – dopo aver detto chiaro che intende stringere di più i rapporti – nei giorni scorsi ha formulato proposte precise. Una lettera in questo senso è stata inviata dagli amministratori delegati di SanPaolo-Imi, Rainer Masera e Luigi Maranzana, ai presidenti delle Fondazioni delle Casse di risparmio di Padova, Rovigo e Bologna, che controllano Cardine. Le ipotesi delineate riguarderebbero l'aggregazione completa della banca veneto-emiliana, un'acquisizione graduale e un'aggregazione federativa sul modello di Unicredito. Cardine non ha ancora dato una risposta, ma ha incaricato i presidenti delle Fondazioni e il presidente della banca di esaminare il promemoria e ripsondere entro 15-20 giorni. La valutazione di Cardine da parte del Sanpaolo Imi si aggirerebbe intorno ai 7,2 miliardi di euro e sarebbe superiore a quella di Bnl.

Chi vincerà? Al momento ogni pronostico è impossibile. Quel che è certo è che i contendenti dovranno superare le riserve della Banca d'Italia, espresse anche negli ultimi giorni dal direttore generale Vincenzo Desario. "I processi di concentrazione, a livello interno e internazionale, vanno attentamente valutati in termini di obiettivi e di aspetti tecnici fondamentali; essi non sempre conseguono gli scopi che si prefiggono; non sono l'unica via per l'efficienza e la competitività", ha detto Desario ai margini di un convegno, aggiungendo che in Italia "le grandi aggregazioni bancarie devono ancora esprimere appieno le potenzialità di cui sono portatrici".


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Gli amministratori, così è se vi pare,
diventano dipendenti delle loro società

(Febbraio 2001) La novità più clamorosa introdotta della Finanziaria 2001 è stata certamente quella dell'assimilazione al reddito di lavoro dipendente dell'attività svolta dai collaboratori coordinati e continuativi, tra i quali, stante la durata delle loro cariche, rientrano gli amministratori e i sindaci delle società commerciali.

Nicola Sardi

Da quest'anno, quindi, cedolino stipendio anche per questi soggetti, considerati parasubordinati per la gestione separata Inps del cosiddetto contributo 10-13 per cento. Spesso questi soggetti sono anche soci e, quindi, proprietari della società per le quali ricoprono le cariche.

Ma, il massimo, è stata la recente posizione assunta dal ministero delle Finanze, che ha precisato che questi redditi sono comunque assimilati a quelli di lavoro dipendente anche se gli amministratori e i sindaci che li percepiscono sono dei liberi professionisti, escludendo da tale nuovo trattamento unicamente i compensi per l'attività di sindaco percepiti dai dottori commercialisti e dai ragionieri!

Ed è così, subitaneamente, esplosa la guerra tra le Casse nazionali degli Ordini professionali e l'Inps, che, naturalmente, la pensava già da prima allo stesso modo del fisco! Le Casse degli Ordini, infatti, hanno immediatamente proclamato l'obiezione previdenziale, invitando cioè i propri iscritti a continuare ad assoggettare tali compensi alla loro contribuzione, per non vedere dirottare ingenti versamenti dalle loro casse private a quella "cloaca pubblica" gestita dall'Inps.

Si annunciano poi iniziative giudiziarie, con ricorsi al Tar, da parte dei revisori contabili non iscritti anche a un Ordine professionale, cioè da parte di quei soggetti che, di professione autonoma abituale, fanno solo i sindaci delle società.

Anche a prescindere dal considerare la paradossale situazione di volere per forza considerare subordinato un proprietario, magari di maggioranza, della società o un professionista abituale, una cosa comunque è certa: la ratio della legge che introdusse l'allora gestione separata dell'Inps del 10 per cento, era senza dubbio quella di dare copertura previdenziale a soggetti che prima ne erano privi e non certo quella di aggiungere un nuovo obbligo di copertura previdenziale, per di più pubblica, a chi invece già l'aveva con gestione privata, e, quindi, con prestazioni certamente migliori!


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Tra le pieghe della finanziaria, Amato aumenta
il potere dello Stato di angariare il cittadino

Nicola Sardi

(Febbraio 2001) Probabilmente invocherà l'insegnamento di Niccolò Machiavelli, "il fine giustifica i mezzi", il presidente del Consiglio Giuliano Amato, per difendersi dalle critiche di aver interpretato ampiamente (anomalo per lui, che è definito il dott. Sottile...) le finalità di cassa che una legge finanziaria deve perseguire, ritenendo opportuno d'inserire nella legge in vigore per il 2001, tra le disposizioni dichiaratamente di "natura diversa", una nuova disciplina delle esecuzioni forzate nei confronti delle pubbliche amministrazioni.

La prima di queste innovative disposizioni, prevede che "le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completino le procedure per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme di denaro, entro il termine di 120 giorni dalla notificazione del titolo esecutivo".

Tradotto dal burocratese, significa che lo Stato pagherà le sentenze e gli altri provvedimenti giurisdizionali che lo condannano, a 120 giorni data di ricevimento del titolo esecutivo. Il precedente termine di pagamento che si era concesso con la Finanziaria per il 1997 era di 60 giorni.

Correttamente la legge dice che le Amministrazioni "completano" le procedure, e non "devono completare" (forse era meglio "possono"), in quanto, nella realtà, il cittadino vittorioso, che iniziava l'esecuzione forzata nei confronti dello Stato facendogli notificare il provvedimento di condanna, non riceveva affatto l'effettivo pagamento nel precedente termine di 60 giorni data titolo esecutivo, ma quasi sempre solo dopo aver proseguito e completato l'azione di espropriazione forzata nei confronti dell'ente insolvente.

Di fatto, quindi, con questa disposizione, lo Stato beneficerà di un raddoppio del tempo che può pretendere per paralizzare l'inizio dell'effettiva esecuzione forzata da parte del suo cittadino creditore! Con questo nuovo termine viene inoltre a svanire la possibilità per il creditore di procedere, come prima per lo più si faceva, facendo notificare insieme il titolo esecutivo e l'atto di precetto, in quanto, ai sensi di una norma del processo civile, ovviamente non modificata, l'efficacia dell'atto di precetto, costituente l'intimazione al debitore d'adempiere, viene meno se entro 90 giorni dalla sua notifica non è iniziata l'esecuzione!

L'altra norma prevede che "gli atti di pignoramento e sequestro debbano essere, a pena di nullità, notificati presso la struttura territoriale dell'ente pubblico nella cui circoscrizione risiedono i soggetti privati interessati e contenere i dati anagrafici dell'interessato, il codice fiscale ed il domicilio; l'ente, comunque, risponde con tutto il patrimonio".

Tradotto dal burocratese, significa che chi ha notificato l'atto di precetto con il titolo esecutivo negli ultimi due mesi dell'anno scorso e, quindi, era in attesa di procedere, si vedrà prorogato il termine di altri 60 giorni dal 1° gennaio 2001: e una volta scaduto il nuovo termine sarà comunque costretto a far notificare un nuovo atto di precetto e poi, finalmente, potrà procedere contro l'amministrazione nella cui circoscrizione risiede il creditore.

Questa disposizione sembra un'agevolazione, in quanto fino a ieri le Avvocature dello Stato che difendevano in giudizio le Amministrazioni, il più delle volte, invocavano quale competenza esclusiva il foro di Roma, con il risultato però di indirizzare un enorme flusso di contenzioso sulla capitale. Ora le vertenze potranno seguire la residenza del creditore: ma intanto – vista la nuova disposizione – siamo certi che per quelle intraprese con atti di pignoramento o di sequestro avanti al foro di Roma, sicuramente l'Avvocatura non perderà l'occasione per eccepire l'incompetenza territoriale!


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Un 2001 di stagnazione e tassi fermi

Paolo Brera

(Febbraio 2001) A bocce ferme, è abbastanza facile vedere che il taglio dei tassi deciso a fine gennaio dalla Fed è uno di quegli spartiacque che ogni tanto si presentano nel fluire degli eventi economici. Qual è allora la nuova fotografia del mondo, quale direzione prenderà l'economia mondiale nei prossimi mesi, e che cosa potranno fare le banche centrali?

In verità non c'è da aspettarsi molto da nessuna area dell'emisfero occidentale, a cominciare dagli Stati Uniti, dove gli umori sono radicalmente cambiati rispetto a pochi mesi fa, come dimostra la serie di cadute che si sono verificate a Wall Street. Il Nasdaq, l'indice dei valori del settore tecnologico, è oggi nei dintorni di 2400 punti, la metà rispetto al massimo e il 40 per cento in meno rispetto all'inizio dell'anno: anche i più devoti fedeli di Fibonacci devono limitarsi a sperare che questo sia un ritracciamento del tipo massimamente indigesto, quello del 60 e fischia per cento, praticamente indistinguibile dal più orso degli orsi di Borsa. Il rallentamento della crescita americana è stato e rimane più forte e più rapido di tutte le previsioni, e nei prossimi mesi sarà accentuato da altri due fattori: il ciclo delle scorte e la caduta della domanda dei consumatori, troppo indebitati per continuare a spendere come solevano.

La Riserva Federale può fare ben poco al riguardo. Alcuni hanno detto che potrebbe ridurre di nuovo i tassi anche prima della riunione del Fomc del 18 marzo 2001 (in condizioni ordinarie, tali riunioni sono il momento specificamente deputato agli interventi di politica monetaria). In realtà, qualunque nuovo intervento che non fosse puramente simbolico – che cioè andasse al di là di un ritocchino dello 0,25 per cento – rischierebbe forte, nell'attuale clima di pessimismo, di essere interpretato come un "si salvi chi può" e di avere quindi effetti opposti a quelli desiderati. Più che dai tassi, qualche sollievo potrebbe invece venire dal taglio delle tasse, promesso da Bush e frettolosamente infilato nella pipeline legislativa. Tutto, però, resta molto incerto, e non si vede con quale fondamento alcuni economisti americani si intestardiscano a predire una ripresa nel secondo semestre.

Le altre aree del pianeta non sembrano in grado di prendere il testimone dall'America. Non parliamo del Giappone o dell'Asia orientale, destinati ad arretrare con la stessa sicurezza con cui i pianeti si muovono nelle loro orbite (e le notizie di febbraio dal Sol Levante già l'hanno confermato). Ma anche la prevedibile crescita della domanda proveniente dai Paesi esportatori di petrolio si manifesterà solo gradualmente (il lag è per solito di due o tre anni).

A voler essere ottimisti, l'Europa potrebbe invece non essere troppo influenzata dalla recessione americana, perché da noi la domanda interna continua nonostante tutto a crescere. Certo, la stanchezza dell'economia mondiale non mancherà di produrre qualche effetto, ma l'aspetto decisivo rimane la robustezza interna. Qui peraltro bisogna avvisare che l'evidenza è mista, non univoca. I segnali di fiacca continuano ad alternarsi ai buoni risultati, ed è già trascorso un paio d'anni senza che abbiamo avuto la soddisfazione di vedere le metaforiche lucette dell'economia segnare verde tutte insieme.

E la Banca Centrale Europea, che governa la più cospicua valuta del continente? Come previsto, dopo la decisione della Fed di fine gennaio non si è subito precipitata ad abbassare il tasso di riferimento dell'euro, lasciandolo al 4,75 per cento. Con ogni probabilità non lo toccherà nemmeno nei prossimi mesi – a meno di un ulteriore deciso intervento della Fed sui tassi americani, al quale sarebbe ovviamente impossibile per la Bce restare indifferente.

Ci sono molte concause per questo atteggiamento. La prima è che la Bce tiene ad accreditarsi come un'istituzione calma e posata, a somiglianza della Bundesbank di cui vuole presentarsi come l'erede. Per questo gli interventi che fa sui tassi devono essere pochi e contenuti. Essi, inoltre, devono essere chiaramente ricollegabili all'evoluzione dei prezzi, la ricerca della cui stabilità è per statuto la missione della Banca.

Ora, a dicembre l'inflazione nell'area euro è stata del 2,6 per cento, cioè ben oltre il livello considerato sano (2%). Per di più l'euro non ha reagito con un grosso rafforzamento al taglio dei tassi americani: anzi, contro dollaro è sceso di nuovo, con quello che sì dev'essere un piccolo ritracciamento, e si trova ancora sotto i livelli raggiunti un mese fa. L'altra variabile importante, il prezzo del petrolio, dopo qualche segno di nervosismo sembra invece essersi avviato a maggiore tranquillità. In ogni caso, l'euro-scenario più probabile per il 2001 è dunque quello di interessi invariati e crescita moderata, se non proprio di stagnazione. E il resto del Continente – che dico, del mondo – dovrà probabilmente condividere il grigiore.


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Dopo il taglio dei tassi, economia nell'incertezza

Paolo Brera

(Febbraio 2001) A bocce ferme, è facile vedere che il taglio dei tassi deciso a fine gennaio dalla Fed è uno di quegli spartiacque che ogni tanto si presentano nel fluire degli eventi economici. Qual è allora la nuova fotografia del mondo, quale sarà la direzione che prenderà l'economia mondiale nei prossimi mesi? Potremo azzardare una risposta dopo aver preso in esame la situazione nelle due aree più importanti del pianeta, a cominciare, noblesse oblige, dall'America.

Negli Stati Uniti gli umori sono radicalmente cambiati rispetto a pochi mesi fa. Il rallentamento della crescita è stato e rimane più forte e più rapido di tutte le previsioni. Nei prossimi mesi la perdita di velocità si accentuerà per l'azione di altri due fattori: il ciclo delle scorte e la caduta della domanda dei consumatori. Il rallentamento dell'economia è avvenuto sino ad oggi con scorte in aumento, ma le imprese non andranno avanti per molto ad accumulare stock di prodotti che non si vendono. Nel primo trimestre prevarrà dunque la cautela, e le imprese ridurranno di brutto la produzione. La domanda interna sarà poi ulteriormente depressa dalla simmetrica cautela dei consumatori, che oggi come oggi sono fortemente indebitati. La pura e semplice decisione, da parte delle famiglie americane, di non aumentare i propri debiti, toglierebbe di per sé al pil due punti di incremento.

Di fronte a tutto ciò la Riserva Federale può fare ben poco. Alcuni dicono che potrebbe ridurre di nuovo i tassi anche prima della riunione del Fomc del 18 marzo (in condizioni ordinarie tali riunioni sono il momento specificamente deputato agli interventi di politica monetaria). In realtà, qualunque nuovo intervento che non fosse puramente simbolico – che cioè andasse al di là di un ritocchino dello 0,25 per cento – rischierebbe forte, nell'attuale clima di pessimismo, di essere interpretato come un "si salvi chi può" e di avere quindi effetti opposti a quelli desiderati. Più che dai tassi, qualche sollievo potrebbe invece venire dal taglio delle tasse, promesso da Bush e oggi frettolosamente infilato nella pipeline legislativa. Tutto, però, resta molto incerto, e non si vede con quale fondamento alcuni economsiti americani si intestardiscano a predire una ripresa nel secondo semestre.

L'Europa potrebbe non essere troppo influenzata dalla recessione americana, perché da noi la domanda continua a crescere. Certo, la stanchezza dell'economia mondiale non mancherà di produrre qualche effetto, ma l'aspetto decisivo rimane la robustezza interna. Qui l'evidenza è mista. I segnali di fiacca continuano ad alternarsi ai buoni risultati, ed è già trascorso un paio d'anni senza che abbiamo avuto la soddisfazione di vedere le metaforiche lucette dell'economia segnare verde tutte insieme.

E la Banca Centrale Europea, che governa la valuta più grossa del continente? Come previsto, dopo la decisione della Fed non si è subito precipitata ad abbassare il tasso di riferimento dell'euro, lasciandolo al 4,75 per cento. Con ogni probabilità non lo toccherà nemmeno nei prossimi mesi – a meno di un ulteriore deciso intervento della Fed sui tassi americani, al quale sarebbe ovviamente impossibile per la Bce restare indifferente.

Ci sono molte concause per questo atteggiamento. La prima è che la Bce deve accreditarsi come un'istituzione calma e posata: come già la Bundesbank, gli interventi che fa sui tassi devono essere pochi e contenuti. Essi, inoltre, devono essere chiaramente ricollegabili all'evoluzione dei prezzi, la ricerca della cui stabilità è per statuto l'imperativo categorico dell'istituto di emissione dell'Unione europea. Ora, a dicembre l'inflazione nell'area euro è stata del 2,6 per cento, cioè ben oltre il livello considerato sano (2%). Per di più l'euro non ha reagito con un grosso rafforzamento al taglio dei tassi americani (contro dollaro si trova ancora sotto i livelli raggiunti un mese fa), e il prezzo del petrolio sta dando qualche segnale di nervosismo. L'euro-scenario più probabile per il 2001 è dunque quello di interessi invariati e crescita moderata, se non proprio di stagnazione.


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L'avvocato delle cause perse

Nicola Sardi

(Gennaio 2001) Non deve essere una grande soddisfazione per un avvocato farsi affibbiare una simile definizione. Ma, tutto sommato, non deve essere neanche così infamante, visto che se lo va dicendo da sé con autoironia, Vitalino Esposito, il magistrato di Cassazione attuale difensore giuridico del Governo italiano presso la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo a Strasburgo.

Infatti, il povero difensore dell'Italia a Strasburgo ha dovuto da solo sopportare nel 2000 il carico di ben 228 condanne; se si pensa poi che al momento del suo insediamento, tre anni fa, i ricorsi contro il nostro Paese erano solamente 370, mentre l'anno scorso siamo arrivati ad oltre 1.000, la prospettiva per lui non dev’essere certo incoraggiante.

Un bel record, non c'è che dire, tanto da dover considerare l'Italia come un vero "sorvegliato speciale". Ricordiamo, per i pochi che ancora non lo sapessero, che questi ricorsi, nella quasi totalità consistono nella richiesta di risarcimento danni per l’eccessiva durata dei processi italiani, in violazione di un principio riconosciuto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Peraltro, questa situazione è oggetto di ripetute denunce del Presidente della Corte, che se ne lamenta continuamente con Esposito anche in vista dell’ulteriore aumento dei ricorsi previsto per quest’anno; ciò, temiamo, finirà per seppellire la segreteria della Corte stessa e il residuo orgoglio dell’avvocato Esposito, stretto com’è tra i due fuochi.

Esposito infatti ci riferisce che, una volta, nonostante la durata del processo fosse stata di ben 14 anni, è riuscito a vincere, evitando cioè la condanna dell'Italia, avendo dimostrato che il ritardo era dipeso da comportamenti dilatori degli avvocati. Una singola volta su 228.

Ma con queste dichiarazioni, per quanto accompagnate da una buona dose d'autoironia, lo spiritoso Vitalino ha commesso un terribile autogol!

Difatti gli avvocati italiani che rappresentano i cittadini ricorrenti non perderanno occasione per riportare le sue stesse dichiarazioni quale ulteriore ammissione da parte del Governo italiano che patrocina, dell'indifendibilità del proprio sistema giudiziario, nonostante i ripetuti interventi e tentativi di aggiustamento… E forse, il primo che ne approfitterà sarà proprio quell’avvocato della causa di 14 anni, per ora unico sconfitto dall'avvocato delle cause perse!


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E-giustizia? E le marche da bollo…?

Nicola Sardi

(Gennaio 2001) L'aveva anticipato in ministro di Giustizia Piero Fassino in occasione della sua visita allo Smau di Milano, nello scorso autunno: il processo civile, a partire dal 1° gennaio 2002, data concomitante alla scomparsa della lira con l'introduzione dell'euro, diventerà informatico, e tutte le notificazioni e comunicazioni potranno avvenire in via telematica.

In realtà, la data promessa subisce già una proroga anticipata di sei mesi, perché Fassino in quell'occasione indicò la data del 30 giugno 2001. D'altronde, su queste pagine Web avevamo già allora manifestato perplessità sull'eccessivo ottimismo palesato dal signor ministro.

Infatti la Finanziaria 2001 ha appena formalizzato il secondo rinvio di ulteriori sei mesi della soppressione delle marche e dei diritti giudiziari, che secondo la precedente Finanziaria, ancora ottimisticamente, avrebbero dovuto essere tolte di mezzo per lasciare spazio ad uno nuovo (e ben più temuto) balzello: il contributo unificato. Una macchina giudiziaria che non riesce a fare a meno, dopo un anno di preparativi, all'uso degli abituali bolli sulle carte, ben difficilmente potrà riuscire, sempre in un solo anno, a rivoluzionare totalmente le abitudini dei suoi addetti ai lavori!

Secondo il regolamento predisposto da Fassino e approvato dal Consiglio dei ministri, "tutti gli atti e i provvedimenti del processo possono essere compiuti come documenti informatici sottoscritti con firma digitale e possono essere trasmessi e notificati per via telematica".

Il fatto che il nuovo fascicolo elettronico sia solo possibile e non obbligatorio è, evidentemente, già assai indicativo. Poi è altrettanto chiaro che il successo dell'uso della carta informatica nel processo civile passi attraverso alla diffusione della firma digitale, necessitando un indispensabile canale "riservato" per gli operatori del mondo giudiziario.

Una volta superato il non trascurabile impasse della firma digitale, cioè elettronica (che sembra diventare indispensabile anche per dare certezze ai pagamenti per i venditori che operano nell'e-commerce), resta quello delle notifiche e comunicazione degli atti, che potranno avvenire sia utilizzando il sistema elettronico disponibile per gli Uffici giudiziari, sia all'indirizzo di posta elettronica comunicato dagli avvocati difensori ai rispettivi Ordini di appartenenza.

Ma ad oggi pochissimi Ordini hanno pubblicato albi, anche telematici, con l'indicazione delle e-mail degli avvocati: ad esempio, quello di Milano, secondo per numero d'iscritti (oltre 6.000), attualmente ha aggiornato in rete solamente circa un 20 per cento di indirizzi di posta elettronica. La telematica, a quanto sembra, dovrà aspettare ancora qualche po'.


 

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