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Presentata al Circolo della Stampa
la biografia di Gianni Brera
Il
17 ottobre Bruno
Pizzul
e Vittorio Moretti, insieme agli autori Paolo Brera e Claudio
Rinaldi, hanno presentato al Circolo della Stampa di Milano
la biografia Giôannfucarlo.
La vita e gli scritti inediti di Gianni Brera (Il
Regisole, Pavia 2001, Lire 69.000) e
I percome e i perché (Il
Regisole, Pavia 2001, Lire 25.000),
che
è l’antologia dei racconti finalisti del Premio Gianni
Brera con un’ampia sezione breriana dove compaiono diversi
inediti (o… mal editi) di Brera.
Rosa Gialdina
All'incontro è stato anche presentato
il vino Zuanne, dedicato a Gianni Brera da Vittorio Moretti
e dal suo grande enologo Mattia Vezzola. Il vino – un Merlot
in purezza – è fuori commercio, ma resta uno dei vini
straordinari dell'Azienda Agricola Bellavista, che sono stati
serviti alla successiva cena. Ad essa e alla presentazione
hanno partecipato lo scultore Carlo Mo, i giornalisti Mario
Fossati, Pilade Del Buono, Giulio Signori, Gigi Bignotti,
Cristiana Cassè, Rolly Marchi, Giancarlo Besana, oltre
ai direttori di diverse pubblicazioni specializzate della
gastronomia e del vino. La "giannibreramania" è in
marcia.
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Benvenuti
nel club dei Senzabrera
(Introduzione
al libro Giôannfucarlo)
Dimentichiamo
in fretta. Gli uomini, soprattutto. Meno male, verrebbe voglia di
dire, visto che i pochi di cui si conserva memoria vengono incapsulati
dentro ermetiche antologie o frettolosi reliquiari omnicomprensivi,
con un processo di liofilizzazione che ne offende lo spessore umano,
ne oscura la fatica e il sapore del rispettivo vivere quotidiano.
Peggio ancora se poi, con tardivo slancio creativo, si vuol rendere
omaggio a qualche grande del passato rivisitandone l'esistenza attraverso
gli schemi del romanzo storico, con ricostruzioni arbitrarie e fantasiose.
Bruno
Pizzul
Suppongo
che gli autori di questo lavoro su Gianni Brera abbiano, magari
inconsciamente, voluto scongiurare simili rischi, regalando, soprattutto
a quanti non lo hanno frequentato di persona, le coordinate per
comprenderne lo spiritaccio indomito e la singolare vocazione alla
parola scritta. Non di biografia classica si tratta, né di
sistematica e ordinata raccolta antologica, ma piuttosto di testimonianza
che nasce dalla toccante pietas filiale di Paolo e dalla fede breriana
di Claudio Rinaldi, protagonista di mistico giovanile pellegrinaggio
per incontrare nelle Cinque Terre il grande Giôann. Freschi
d'affetto e di ricordo ci raccontano quasi in presa diretta1'uomo,
il padre, il giornalista, il primattore.
Dio
mi scampi, comunque, dalla tentazione di fare esercizio di critica
letteraria sulla fatica di Brera fu Giovanni e Rinaldi. Ci mancherebbe
altro.
Abituato,
per ancestrale pigrizia soggettiva, a fidarmi del gusto personale,
posso solo dire di aver tracannato con avido piacere lo scritto:
inorridiscano pure i critici di professione che considerano peccaminosa
ogni valutazione di natura soltanto edonistica. A me il lavoro a
due mani è piaciuto e tanto mi basta. Leggere per credere.
Affascinante
mi è parsa soprattutto l'indicazione del processo evolutivo
attraverso il quale Gianni Brera è arrivato a perfezionare
il suo stile: sono riportati alcuni testi giovanili che mai e poi
mai avrebbero lasciato supporre maturazione di linguaggio e capacità
comunicativa tanto singolari.
Ma
basta là con queste maldestre acrobazie interpretative, meglio
è forse che io butti giù due parole sul Brera che
ho conosciuto e frequentato, ahimè molto meno di quanto avrei
voluto. Mi sono spesso chiesto da che cosa nascesse la sua bonomia
nei miei riguardi, visto che ci incontravamo di rado. Credo che
mi abbia battezzato bene al nostro primo incontro.
Stavamo
l'uno accanto all'altro al ristorante, lui già celebre Gioanbrerafucarlo,
io appena arrivato alla rai, autentico signor nessuno.
Ero
però già apparso in tv per qualche banale intervistucola
e telecronaca estiva. A un certo punto ci si avvicinò un
pinella e mi chiese l'autografo, ignorando completamente l'augusto
commensale che mi stava al fianco. Arrossii violentemente per l'imbarazzo
e implorai perdono con gli occhi. Gianni capì subito la faccenda
e con gesto magnanimo mi trasmise il messaggio: firma e sta' zitto,
non è colpa tua, semmai è colpa del lavoro che fai
tu e che faccio io. Subito dopo prese a conversare con me in modo
più amichevole e a interrogarmi sulle mie origini.
Lombardo
non ero, ma la radice friulana era sufficiente a conferirmi buone
possibilità di accettazione quanto a etnos e trascorsi gravami
sociostorici. Quando poi seppe che ero figlio del macellaio del
paese, che avevo nutrito sogni calcistici mai compiutamente realizzati,
che ero arrivato in rai quasi per caso, che mi ero laureato giochicchiando
qua e là per l'Italia, che ancora non ero sicuro di aver
imboccato la strada giusta, mi fece ulteriormente salire nella sua
considerazione. Per la verità emerse subito anche qualche
piccolo contrasto d'opinioni. Colpa del vino.
Gianni
era gran cultore dei rossi e, verificato che io andavo solo a bianco,
tentò di convertirmi quanto meno a più canonici accostamenti
con la mangeria: sorseggiai per compiacerlo qualche gotto di barbera
ma poi mi rituffai nel per me più familiare e rassicurante
tocai. Del quale invano cercai di tessere le lodi: bisogna dire
che allora, ultimi anni Sessanta, i miei amici produttori del Collio
non erano ancora riusciti a imporre a livello nazionale il loro
prodotto e quindi giocavo in chiara inferorità anche di mercato
contro cotanto avversario. Tenni però duro e Gianni apprezzò
quella dimostrazione d'attaccamento alle radici, bollando la mia
testardaggine con un solo apparentemente velenoso "mona
de un furlàn".
Lo
aveva senz'altro imparato da Rocco, che da buon triestino era solito
apostrofare così noi contadinotti della Piccola Patria Friulana.
Indimenticabili
gli incontri tra Rocco e Brera, di cui resta traccia anche nella
cineteca rai: Gianni Minà li mise uno accanto all'altro a
Trieste e ne uscì un documento straordinario di umanità
e maestria comunicativa.
Più
ancora era gradevole stare con loro a tavola, quando non c'era l'urgenza
del servizio da confezionare e, tra giornalisti e uomini di sport,
esisteva ancora un rapporto confidenziale, si poteva parlare a ruota
libera.
Quei
due avevano tutto per andare d'amore e d'accordo: anche Nereo viaggiava
preferibilmente a rosso, si intendevano alla meraviglia su quello
che era il calcio adatto a noi italianuzzi, amavano la buona tavola
e la compagnia, sparacchiavano a destra e manca giudizi terribili
su chi non andava loro a genio. Argomento privilegiato il pallone,
anche se Brera era diventato un magico cantore dell'atletica, del
ciclismo, del pugilato. Ma per averli studiati e scoperti, prima
di parlarne. Vuoi mettere il fascino sottile e innato del "folber"?
Lo trasmette alla sua maniera Gianni Brera in ripetute professioni
d'amore per questo sport inventato sì dai borghesi, ma diventato
patrimonio anche dei poveri, elevato nel suo sentire quasi a espressione
d'arte quando la fantasia si accoppia all'abilità. "Grande
sarà la tua gioia quando parlerai alla palla con le mani
che l'uomo, camminando per milioni di anni, ha trasformato in piedi",
sentenzia. Rocco, al proposito, non aveva bisogno di venir convinto
e, semmai, si sforzava di arricchire con nuovi argomenti concreti
le tesi del Giôann: lo portai, dopo molte insistenze, a vedere
una partita di pallacanestro tra l'allora grande Simmenthal e il
Real Madrid, roba di lusso, per la coppa dei campioni. Alla fine
gli chiesi un parere su quella che lui si ostinava a chiamare palla
al cesto.
"No
xé mal, ma i fa sempre falo de man".
Venuto a conoscenza
di questa definitiva risposta, Brera si premurò di far arrivare
al Paròn i suoi complimenti: usare le mani per giocare è
come annullare 1'evoluzione del bipede umano che tanto ha penato
per poter alfine usare i piedi, che una volta erano mani, come strumento
di gioco. Anzi d'arte.
Le
sparavano grosse quando erano assieme quei due, contenti di potersi
esprimere nelle rispettive parlate natali, fingendo perfino di comprendersi
sempre, anche se Rocco ogni tanto, sottovoce, mi chiedeva: "Cossa
el gà dito?".
Già,
Brera e il dialetto. Ne rivendicava convinto alcune peculiarità
espressive intraducibili, partigiano il giusto per il suo lombardo
bassaiolo ma pronto a riconoscere analoghe potenzialità anche
ad altre parlate.
Fu
molto colpito quando gli dissi che, nella sola parte del Friuli
Venezia Giulia rimasta per secoli sotto gli Asburgo, le scarpe da
calcio venivano chiamate "tretars" o "tretari". Vocabolo apparentemente
misterioso, visto che nessun dizionario tedesco lo riporta e sconosciuto
già ai friulani di Udine. Mi invitò anche a usarlo
in telecronaca, in sostituzione del classico "scarpe bullonate"
o del vezzoso ma decisamente comico "scarpini", buono per la Fracci
ma non certo per rudi "prestipedatori", come li chiamava lui. Me
ne guardai bene, era solo suo il diritto a inventare parole nuove.
Di
recente, ammesso che a qualcuno interessi, l'esimio professor Frau,
dell'Università di Udine, mi ha comunicato trattarsi effettivamente
di un tedeschismo goriziano, derivante dalla lingua gergale dei
soldati che chiamavano "treter" le loro scarpe da fatica, con le
quali evidentemente prendevano a calci il pallone. Fosse venuto
a saperlo il Gianni, ci avrebbe di sicuro ricamato un trattato,
anche per scovarvi le ragioni dell'inziale supremazia calcistica
della scuola danubiana: non risulta infatti che i soldati del Regio
Esercito Italiano avessero, a quei tempi, un paio di scarpe di riserva
con le quali poter prendere a pedate un pallone. Per non parlare
del pallone stesso.
Del
calcio il Nostro era cultore appassionato e attento osservatore.
Per trattarlo e, alla sua maniera, ha dovuto diventare direttore
della Gazzetta, prima gli avevano fatto scrivere di atletica
e di ciclismo. Lo fece tanto bene che ben presto lo misero a capo
della congrega. E finalmente potè parlare anche di pallone.
Con la forma e i contenuti preferiti. A dispetto delle apparenze,
Gianni non era un vanaglorioso, gli piaceva sì raccontare
a tavola o nei celebri Arcimatto l'antico suo mondo paesano ai margini
di Po, la fatiche per assicurarsi il lesso, le strizze col paracadute,
i fugoni e le imprese da partigiano, ma lo faceva senza andare sopra
le righe, spesso dando l'impressione di non prendersi troppo sul
serio, per quanto drammatici fossero gli eventi. Rimase invece sempre
fiero della personale crociata, come direttore della Gazzetta,
per bandire dal calcio italiano l'imperante e deleterio wm. Passò
per eretico bestemmiatore, affossatore dello spettacolo, becero
difensivista. Rispose naturalmente per le rime, circondato dai pochi
fidi pretoriani che s'era scelto. Fu un periodo fecondo per il giornalismo
sportivo italiano: di pallone si cominciò a parlare in modo
serio, non più da fini scrittori che non conoscevano il calcio
nè da vecchi pallonari che non sapevano scrivere.
Mi
raccontò più volte di quelle vicende e di come trovò
alleati preziosi in alcuni tecnici nostrani che finalmente cominciavano
a emanciparsi dalla sudditanza verso la scuola inglese o danubiana.
Partiva da argomentazioni di carattere etnico e nutrizionale per
affermare l'inapplicabilità di schemi troppo dispendiosi
al nostro calcio di italianuzzi striminziti e muscolarmente flebili:
tesi che poteva anche non essere condivisa. Ma nella sostanza tattica
aveva ragione da vendere, lo hanno dimostrato i fatti: senza cavillare
troppo, ogni volta che, nel calcio di oggi, dalla matassa aggrovigliata
del centrocampo schizza fuori un pallone e una squadra si trova
a proporre l'azione d'attacco in parità numerica con i difensori
avversari, noi telecronisti alziamo il tono della voce come se si
trattasse di gol già fatto. Con il wm era la norma: due terzini
e un centromediano contro le due ali e il centravanti, roba da matti.
Il
calcio italiano ci sarebbe arrivato lo stesso, ma Gianni Brera gli
diede una bella svegliata e per farlo fu costretto a battagliare
non poco con i benpensanti dell'epoca.
E
furono battaglie giornalisticamente feroci, al confronto le più
recenti tenzoni originate dall'avvento nel pianeta calcio (brerarianamente
Eupalla) del "guru" Righetto Sacchi, scadono al rango di semplici
scaramucce ricamate in punta di fioretto. Allora non si determinarono
due schieramenti critici contrapposti, la sproporzione quantitativa
delle forze in campo risultava clamorosa: il prode fracassone Brera
e i suoi pochi fidi contro tutti. E furono botte da orbi. Che poi
Brera conducesse questo "bellum pedatorium" come direttore, giovanissimo,
della Gazzetta scatenò la rabbiosa reazione di tutti
i concorrenti, compatti nell'osteggiare chiunque ardisse farsi paladino
della spregevole nuova eresia difensivista.
E
pensare che, almeno in parte, altro non era che un ritomo al "metodo"
che prevedeva una linea di quattro difensori, con due terzini centrali.
Adottandolo,
la nazionale italiana negli anni Trenta aveva vinto due mondiali
e un'Olimpiade, con alla guida il mitico Vittorio Pozzo che pure,
dicono, si segnalava più per i discorsetti gonfi di amor
patrio negli spogliatoi che per acume tattico in panchina. Poi quel
modo di giocare calcio fu abbandonato per far posto allo squilibrio
del wm, considerato il punto d'approdo finale dell'evoluzione pedatoria.
Attento osservatore, Brera aveva però notato che, senza strombazzamenti,
alcuni tecnici avevano preso a puntellare la difesa con l'arretramento
di un uomo: Viani nella Salernitana, Rocco nella vecchia Triestina,
in campo internazionale il viennese Rappan alla guida della Svizzera
con il famoso "verrou". E l'Inter di Foni aveva vinto due scudetti
di seguito (1953 e 1954) liberando Blason alle spalle del centromediano
ormai avviato a diventare "stopper". Ma sostenere e propugnare quel
piccolo stratagemma tattico in maniera aperta come faceva Brera
divenne per i pretesi esteti del pallone una diabolica infamia.
Catenaccio, libero, difensivismo si trasformarono in parolacce con
le quali additare al pubblico disprezzo i monatti che pretendevano
diffondere il nuovo veleno al fine di strangolare la sacrale bellezza
del calcio. Che poi dietro questo frastuono di polemiche ci fossero
motivi non tanto legati alla filosofia del pallone ma bassi interessi
di bottega, è altro discorso. Talmente cieca e rabbiosa fu
la reazione che perfino Foni, arrivato alla guida della nazionale
dopo i due scudetti nerazzurri conquistati con tanto di libero,
impose masochisticamente agli azzurri il wm con il solo risultato
di mancare la qualificazione ai mondiali 1958: eliminati dall'Irlanda
del Nord, formazione di cui i vari Ghiggia, Schiaffino, Pivatelli,
Montuori, Da Costa, solo per citare il reparto avanzato, avrebbero
dovuto fare un solo boccone. Amarissima esperienza per il calcio
italiano (si fa per dire, visto che gli italiani "veri" in quella
nazionale erano ben pochi), ma prezioso puntello per la missione
del Giôann, nel frattempo passato al Giorno.
Di
quel periodo e di quelle furibonde baruffe Brera parlava volentieri
nelle confessioni scritte e nei conversari conviviali, certo di
aver proprio allora irrobustito la naturale "vis polemica", arma
attraverso la quale ha poi sempre continuato a deliziare i lettori
e imbufalire le vittime. A rileggere oggi certe sue filippiche,
senza avere l'esatta percezione del clima che s'era instaurato,
ci si può meravigliare per l'asprezza dei toni e la violenza
del linguaggio, ma il Giôann, superata la fase della giovanile
prudenza quando l'esigenza primaria era quella di assicurarsi il
lesso, si trasformò in polemista formidabile, tutto d'attacco.
Un
difensivista come lui? Nulla di strano: nel calcio predicava cautela
perché gli altri erano o potevano essere più dotati
nella corsa, nel muscolo, nel supporto atletico; quando si trattava
di giocare o far la guerra con le parole intuiva di essere il più
forte, andava all'attacco perché sapeva di avere in mano
le carte migliori. Certo è che da quella stagione uscì
di molto cambiato non solo il calcio ma anche e soprattutto il giornalismo
sportivo italiano. O, meglio, la considerazione che gli altri avevano
del giornalismo sportivo. Al proposito si può ben dire che
Brera rappresenta per la sua categoria professionale quel che per
gli allenatori hanno rapresentato Rocco ed Herrera. Prima del paròn
e del mago i tecnici erano personaggi sfumati per il grande pubblico,
se ne parlava poco, nemmeno nella fucina dei ricordi se ne trova
traccia.
Di
mitici squadroni vincenti ancor oggi si recita, quasi come litania,
la formazione: Bacigalupoballarinmaroso... ma chi era l'allenatore
di quei grandi scomparsi nel rogo di Superga? Chi il tecnico della
Juventus il cui incipit era Combirosettacalligaris? Dalla grande
esibizione di hh e Nereo triestin, impagabili teatranti, abilissimi
in panchina e più ancora nella pantomima della sbandierata
rivalità personale, l'intera categoria degli allenatori ha
ricevuto prestigio, fama e grande visibilità. Più
o meno lo stesso ruolo di volano ha assunto Brera per il giornalismo
sportivo: non che prima di lui non ci siano stati validi rappresentanti,
ma, nel contesto del microcosmo informativo, occupavano un rango
marginale, quasi di serie B, anche quando si riconosceva a qualcuno
di loro proprietà di linguaggio o ricchezza di competenza.
Sarebbe naturalmente sbagliato affermare che Brera, da solo, ha
consentito questa singolare metamorfosi categoriale: di sicuro c'è
che, arrivato sulla scena con l'impeto di un ciclone, ha coinvolto
anche i colleghi, amici o nemici che fossero, a un diverso approccio
con il mestiere, a un più incisivo e magari arrabbiato modo
di confrontarsi ed esprimersi. Molto più popolari oggi allenatori
e giornalisti, molto più ricchi solo i primi. Ma di questo
non si può incolpare Brera che, per parte sua, una volta
diventato "Brera", poteva infischiarsene del contratto collettivo
di lavoro, era in grado di dettare le proprie condizioni ai molti
che ambivano retribuirlo, anche sapendo che mai lo avrebbero potuto
irretire dentro vincoli editoriali di ideologia o di maniera.
Come
sempre avviene quando si parla di chi è andato avanti, per
dirla al modo degli alpini che salutano così i loro morti,
c'è il rischio di imbastire processi di laica beatificazione,
affastellando solo meriti e virtù del celebrato. È
un esercizio che finisce il più delle volte per rendere un
cattivo servizio proprio al caro estinto, che ne esce edulcorato
e privo di sostanza. Dire, per esempio, che Gianni Brera sia stato
un esemplare della progenie umana privo di difetto alcuno sarebbe
un insulto, a lui prima ancora che alla verità. Anzi, proprio
lo spessore della carne e il conseguente umore sanguigno lo facevano
dispettoso e vendicativo, narciso come deve essere chi cose e convinzioni
non per sé solo vuol tenere ma pure comunicarle agli altri,
testardo anche contro l'evidenza nel sostenere le prorie tesi. Perché
mica sempre aveva ragione, come nel caso del wm: prendeva anche
topiche clamorose, soprattutto per la presunzione di voler collegare
sempre e comunque il rendimento sportivo alla radice etnica, nutrizionale,
sociale e territoriale del singolo atleta. Colpito dalle prime apparizioni
tra i professionisti di Eddy Merckx, con alcune folgoranti vittorie
in corse di un giorno, sentenziò che mai e poi mai il fiammingo
avrebbe primeggiato in un Giro o in un Tour, per il semplice motivo
che lui e gli avi suoi poca pastasciutta avevano mangiato e il conseguente
deficit di carboidrati non avrebbe consentito al ragazzo i recuperi
immediati necessari per vincere una grande corsa a tappe. In lui
vedeva, insomma, un nuovo Van Steenbergen o Van Looy o De Vlaeminck,
immensi interpreti delle gare d'un giorno. Merckx, invece, divenne
il Cannibale e si mangiò tutti, Brera compreso, in un solo
boccone o a tappe.
Se
poi gli capitava, tirato per i capelli, di iscrivere un malcapitato
nel registro dei nemici personali lasciava scatenare la vena polemica
e menava botte da orbi, magari non solo con le parole. Ma una sola
volta, pare, ci scappò in tribuna un cazzottone a uno storico
rivale. In compenso gli succedeva spesso di non resistere alla tentazione
per qualche battutaccia anche nei confronti di chiunque si avventurasse
dalle sue parti.
Una
volta osai schiacciare un interruttore per accendere la luce, visto
che arrivava il buio: il Giôann, con il quale ci trovavamo
in combriccola, fingendo meraviglia per la riuscita della mia impresa,
soffiò in lombardo stretto che non mi azzardo a riprodurre:
"Però! Questi friulani si sono civilizzati
in fretta".
Gli risposi che la sua celebrata Pavia longobarda aveva ricevuto
l'investitura dalla friulana Cividale e lui subito abbozzò
soddisfatto, ridacchiando. Amava anche punzecchiare l'irascibile
Nicolò Carosio, cui per altro voleva un gran bene, ferendo
il suo orgoglio di giocatore a scopone: il perfido bassaiolo fingeva
di professare grande ammirazione per il metodo perfetto con cui
il grande radiocronista palermitano perpetuava i propri errori,
sempre gli stessi. Ci voleva molto meno per incendiare Carosio e
ne scaturivano sistematici, chiassosi ma incruenti litigi.
Di
Gianni Brera era straordinaria la cultura generale ma soprattutto
storica, tanto più sorprendente in quanto gli studi giovanili
erano stati piuttosto disordinati, visti anche i tempi. Segno di
una successiva applicazione personale, portata avanti, par di capire,
in costante coordinazione con il lavoro giornalistico. Non c'era
posto in cui il mestiere lo portava, di cui non conoscesse storia,
usi e costumi, ascendenze etniche, caratteristiche morfologiche
delle genti. Era sì portato spesso a generalizzare e a costruire,
su quelle conoscenze, discutibili teoremi di rendimento sportivo,
ma molte delle sue pagine più coinvolgenti riguardano questa
capacità di immergere il resoconto del fatto agonistico nel
contesto ambientale. Proprio questa abilità del resto lo
segnalò fin dalle primissime esperienze in Gazzetta,
come redattore dell'atletica prima e dal Tour poco dopo. Sì,
perché Gianni deve la sua fama principalmente al calcio,
ma molto ha scritto di altre discipline sportive, approdando a grandi
livelli di competenza anche in settori di cui in partenza sapeva
ben poco. "Non
lo conoscevo nemmeno quando cominciai",
confessò tra le lacrime negli studi rai di corso Sempione,
quando lo chiamammo a ricordare Consolini nel giorno della scomparsa.
E all'atletica rimase sempre molto legato, conscio che i relativi
studi giovanili gli giovarono anche nelle successive esperienze
giornalistiche. Viene riportato il suo resoconto sulla grande sfida
olimpica tra Ben Johnson e Carl Lewis ed è davvero emozionante
leggere quel che Brera ne ha scritto, cavando fuori da una gara
durata meno di 10 secondi un pezzo incredibile, con un'infinità
di motivi, emozioni, analisi comparate. Si incazzò di brutto,
Gianni, quando il giorno dopo venne a sapere che quegli istanti
di magia agonistica e muscolare erano stati cancellati dalla piaga
del doping.
Restano
poi esemplari i racconti giornalistici legati al Tour, puntuali
nel resoconto del fatto sportivo, ma arricchiti dalla suggestione
del viaggio nella caldissima e dolce Francia. Sfilano città,
castelli, luoghi di storia, cantine e osterie odorose per la favola
del vino e del cibo, miraggi di irraggiungibili telefoni, pianure
interminabili e minacciose salite. Il ciclismo insomma non come
semplice ordine d'arrivo.
Per
dire le cose a quel modo bisogna conoscere. E per conoscere bisogna
aver studiato. Ma Brera non si accontentava di accumulare nozioni
sui libri, sapeva immergersi nei luoghi che visitava: l'ho capito
una prima volta quando mi trovai per combinazione nel suo stesso
taxi in una trasferta spagnola. Conscio che i tassisti di tutto
il mondo sono espertissimi in campo sportivo, si ingraziò
il "cochero" con alcuni lusighieri giudizi sul Real Madrid (Dio
solo sa come facesse a sapere che non tifava per l'Atletico) e pian
piano lo condusse a confidenze sulla città, i ristoranti
tipici, le zone dei ricchi e dei "peones", le idee politiche personali
e giù interrogando. Dopo quella lezione, quando eravamo in
carovana, cercai sempre di infilarmi nello stesso taxi di Gianni,
proprio per imparare qualcosa, pur temendo che lui sospettasse una
mia maligna intenzione di scroccare il viaggetto. Con lui non c'era
verso di pagare, era di una generosità imbarazzante. Del
resto non credo che potesse esistere amministratore in grado di
confutargli la nota spese. Dove andava finiva spesso per allacciare
amicizie durature, se il posto era di suo gradimento.
In
genere si trovava a suo agio ovunque, ma alcuni Paesi non li poteva
proprio soffrire: il cerimonioso e subdolo Giappone, per esempio,
e lo sfuggente Messico. Ai secondi mondiali messicani arrivai qualche
giorno dopo Gianni; entrato in albergo, lo vidi seduto in disparte
con una brutta cera e il ghigno feroce. "Lo
sapevo, non ci volevo tornare in questo posto maledetto!".
E mi raccontò che, essendo stato colpito nel '70 dalla ben
nota vendetta di Montezuma, si era sottoposto per quel secondo sgradito
viaggio a una cura preventiva, onde evitare troppo frequenti precipitose
corse al cesso. Il risultato era che da oltre una settimana non
risuciva a defecare per quanto ingurgitasse di continuo tutte le
porcherie che anni prima lo avevano condannato a omeriche sciolte.
Non riuscii a trattenere un accenno di risata e sono sicuro che
uscii indenne solo perché Gianni era troppo affranto per
fulminarmi.
Delle
molte terre e genti visitate e conosciute Brera ha lasciato infiniti
resoconti, il più delle volte in quei colloqui con i lettori
che teneva su rubriche come l'Arcimatto e l'Accademia, fonte inesauribile
di racconti, considerazioni, rimpatriate tra amici e occasione per
liberare la sua innata vocazione allo scrivere. Sport e calcio erano
lo spunto per andare, vedere, conoscere, assaggiare, annusare, respirare
storia e usanze e poterle poi trasmettere ai lettori. Luogo privilegiato
per assorbire tutto e poi rielaborarlo, la tavola, con adeguati
commensali, è ovvio.
Considerata
l'assidua frequentazione di osterie e ristoranti, resta un mistero
dove Gianni trovasse il tempo per documentarsi e studiare, anche
perché di tutto quel che faceva, mangiava, beveva e apprendeva
finiva poi per scrivere, da una parte o dall'altra. E non tutto
veniva pubblicato. Tanto per dirne una, è uscito postumo,
nel '97, un suo libro sul calcio veneto, scritto anni prima e poi
rimasto in un cassetto, perché gli era stato commissionato
da qualcuno della Regione Veneta che era stato politicamente "trombato"
prima della pubblicazione. Roba da leggere tutta d'un fiato, terreno
ideale per le sue personalissime interpretazioni metasportive, condotte
sul filo della conoscenza storica, sociale e direi quasi umorale
di quelle terre. A lettura conclusa, uno resta sbilanciato, convinto
d'aver commesso fin lì errori imperdonabili nel catalogare
sotto un'unica denominazione geografica veneziani, trevisani, padovani
e vicentini, per non parlare dei marginali veronesi, rovigotti e
bellunesi.
Gianni
era attento fino alla pignoleria, quando si trattava di individuare
e spiegare i luoghi abitati dalla gente: non si accontentava certo
delle suddivisioni artificialmente create dalle esigenze amministrative.
Del resto per lui l'ombelico del mondo restava la natia San Zenone,
che mai avrebbe accettato fosse confusa con qualche borgo lì
accanto. Altra cosa erano pure la regale Pavia e la generosa Milano.
Sapeva e voleva però riconoscere una più ampia comunanza
di radici etniche e storiche tra le genti, non a caso è stato
l'inventore della parola Padania, senza che ciò autorizzi
ipotesi di una sua pretesa paternità leghista. Era sì
uomo del nord, fiero di esserlo, ma nel suo modo personale, qualche
volta magari eccessivo, sempre però indipendente e libero
di pensiero.
Non
a caso le volte in cui lo convinsero a candidarsi alle elezioni
gli andò buca, perché restava cane sciolto e non gli
andava di assoggettarsi alle direttive dei maneggioni della politica.
Per primo, a quanto mi consta, ha anche correttamente indicato la
provenienza di Fabio Capello, chiamandolo "Gran Bisiaco". Fa sorridere
la constatazione che oggi Capello viene definito da tutti friulano
o, ben che vada, giuliano: evidente esercizio di prudenza perché
chi parla, scrive, ascolta o legge non ha la minima idea di chi
diavolo siano i "bisiachi".
Brera
lo sapeva e se, caso mai, qualcuno gli chiedeva delucidazioni era
pronto a spiegare chi sono, dove abitano, come parlano e da dove
vengono fuori i membri di questo apparentemente misterioso ed esiguo
popolo. La solita imprevedibile conoscenza di territori e isole
etniche minuscole e lontane. Arrotondava il suo sapere attraverso
la conversazione spicciola, stuzzicando sempre i commensali a raccontare
storie ed esperienze dei luoghi d'origine. Quanto più dissacranti
e in contrasto con la storiografia ufficiale erano le testimonianze,
tanto più si divertiva. Del resto non c'è angolo d'Italia
nel quale non esista a livello di tradizione orale qualche fatterello
che mal si concilia con la versione dei fatti riportata dai libri
di testo. Nel sud come nel nord, e Brera amava rivisitare e raccontare
la storia del nostro Paese attingendo a queste informazioni, meglio
se avevano il sapore dell'aneddoto. Ascoltava e scriveva, sempre.
Anche allo stadio. Quasi pauroso che gli sfuggisse qualche sensazione
immediata, riempiva il taccuino di note, spunti, osservazioni per
poi elaborarle nel rispetto della prima impressione. Per questo,
soprattutto negli ultimi anni, faceva sedere accanto a sé
un collega di fiducia, caso mai gli scappasse qualche fase di gioco
mentre prendeva gli appunti. Il privilegio di stargli accanto era
di pochi: gli esclusi, invidiosi, mormoravano contro il cavalier
servente di turno.
Fin
da giovane, Brera si era fidato solo della parola scritta, fosse
pure uno sgorbio frettoloso. Siccome di parole ne usava e manipolava
molte, divenne poco a poco inventore di nuovi vocaboli e coniò
folgoranti nomi di battaglia per gli atleti che lo meritavano o
che stuzzicavano la sua fantasia. Ecco allora Gigi Riva "Rombo-di-Tuono",
quasi incarnazione dell'eroe romantico stile Sturm und Drang;
Boninsegna "Boninbagonghi" con riferimento a un famoso nano forzuto;
Pasinato "Gondrand", ditta di autotrasporti nota per i suoi monumentali
tir. Non sono che alcuni esempi, prima o poi qualcuno dovrebbe buttar
giù un elenco completo, roba ghiotta.
Celeberrimo
il suo "abatino" riferito all'inizio al solo Rivera e poi esteso
a tutta la categoria dei gocatori ricchi di talento più che
di muscoli: alla fine Brera e Rivera ci marciavano sulla diatriba
scatenata da quel termine, alimentando ad arte la sensazione di
una presunta reciproca antipatia che in realtà non esisteva.
Anzi, il Gianni di San Zenone nutriva sincera stima, non solo pedatoria,
per il suo omonimo "mandrogno". Ma non poteva certo disconoscere
le proprie convinzioni per cui il calciatore aveva da essere dotato
di una certa fisicità, propensione alla corsa, al contatto,
al sacrificio tattico. Quando Rocco lo rimproverava "no
sta tocarme el bambin de oro",
Brera gli ricordava il primo giudizio espresso proprio dal tecnico
triestino sul futuro campione: "El
presidente gà comprà un muleto per vederlo palegiar
nel suo giardìn".
Poi Rivera ebbe modo di cancellare alla grande i dubbi originari
di quei due stagionati brontoloni.
Il
giudizio categorico era comunque una caratteristica breriana, con
inevitabili risentimenti da parte dei colpiti. Ma se ne curava ben
poco, convinto che, in ogni caso, fosse importante far sentire la
propria opinione, esprimere i propri convincimenti.
Sul
linguaggio di Brera, maturato in campo sportivo e poi utilizzato
anche nei romanzi, si è molto scritto e discusso. Il testo
su cui la critica letteraria ha fissato in prevalenza l'attenzione
è Il corpo della ragassa, singolare opera in cui i
risvolti autobiografici adombrati dal'io narrante riguardano più
che altro il territorio e la mentalità diffusa nella Bassa,
non le vicende personali. Era uno spasso sentire Brera quando sacramentava
a tavola contro quelli che disegnavano dotti accostamenti tra la
sua prosa e quella, per esempio, di Gadda. Scrisse in termini molto
urbani: "Non
rivendico parentele di sorta con quel grandissimo intarsiatore di
parole toscane riplasmate in lombardo che è zio Carlo Emilio",
ma si tratta di precisazione assai edulcorata rispetto alle filippiche
cui si abbandonava quando della faccenda parlava a ruota libera.
Il fatto è che lui voleva far intendere come i lombardismi
(e i riferimenti comprensibili e non banali a qualsiasi altro dialetto)
fossero una ricerca di freschezza espressiva, di originalità
insostituibile. Esattamente il contrario di quanto aveva fatto Gadda
il quale, emulo di Manzoni, un altro che Brera non poteva soffrire,
era andato in riva all'Arno a purificare la lingua, prima di rielaborarla
con meditate iniezioni di localismi lessicali. Lo infastidiva anche
chi trovava da ridire sulla struttura e sulla costruzione dei suoi
romanzi, quasi a rimproverargli una troppo sbrigativa elaborazione:
"Sono uno
scrittore soffocato dall'attività giornalistica"
amava
ripetere, abituato com'era a scrivere di getto, secondo vena e ispirazione
ritenute tanto più credibili in quanto immediate e spontanee.
Ostentava
insomma disinteresse assoluto per quel che dicevano dei suoi scritti
i critici letterari, ma un po' gliene doveva importare, altrimenti
non si capisce perché se la prendesse tanto. Può anche
darsi che abbia avuto qualche volta in animo di fare solo lo scrittore,
sacrificando alla letteratura l'originaria vocazione giornalistica:
ma era giornalista e sportivo dentro, mai gli sarebbe riuscito un
simile tradimento. A parte il fatto che, dicano gli altri ciò
che vogliono, riuscì ad essere contemporaneamente questo
e quello, giornalista e scrittore.
Più
terra terra, molto si discusse anche sul tifo calcistico del Giôann.
Si professava del Genoa, ma ai più il Vecchio Grifone sembrava
una specie di squadra specchio, dietro la quale nacondere il vero
oggetto della sua fede pallonara. "Dice
così per non confessare il suo tifo per l'Inter",
berciavano i milanisti, mentre i cugini della beneamata sostenevano
l'esatto contrario. Quasi che, pavidamente, Brera temesse di inimicarsi
una parte dei suoi lettori. Sospetto a dir poco curioso, visto che
di lui tutto si potrà dire ma non che avesse la tendenza
a nascondere le proprie idee: spiegava che, essendo stato accolto
e ben nutrito dalla generosa Milano, era contento allo stesso modo
quando l'una o l'altra squadra meneghina vincevano. Bestemmia di
quelle grosse per i tifosi "veri".
L'ho
sempre ritenuto sincero, anche se poi lui stesso mostrava di creder
poco alle mie esibite predilezioni calcistiche: passi per il Grande
Torino (chi non era stato stregato da quei campioni?), ma gli sembrava
poco credibile che potessi fare contemporaneamente il tifo per la
Triestina e per l'Udinese, ben conoscendo i pessimi rapporti tra
i "cittadini" giuliani e i "contadini" friulani. Tra i due mondi
però Gorizia e il suo territorio hanno sempre fatto da cuscinetto,
gli ricordavo. Per la verità più "contro" che "con"
Trieste e Udine, ma io ho sempre avuto un carattere accomodante.
Gianni
accettava invece di buon grado che mi uniformassi alla sua scelta
di condivisa simpatia verso le due squadre milanesi: lui però
sospettava che pendessi un po' più dalla parte del Milan
(almeno finché c'era Rocco), io che lui scivolasse verso
il nerazzurro (almeno finché c'era lady Erminia). Forse avevamo
ragione tutti e due. Di sicuro le predilezioni per gli uni non escludevano
la simpatia per gli altri. Da parte sua e mia.
Questioni
di tifo a parte, Giôann amava davvero il calcio, quello giocato,
ben s'intende. E di quello gli piaceva parlare e scrivere, la partita
era e doveva restare il centro motore di tutto il resto. Aveva intuito
il rischio che il prima e il dopo, con l'inevitabile marea di chiacchiere,
baruffe, sospetti, bugie, scuse, interessi extratecnici e dietrologie
assortite, potevano soffocare l'essenza del gioco più bello
del mondo. Non ha fatto in tempo a vedere fino a qual punto sia
giunto il processo degenerativo, ma ne aveva indicato i pericoli.
Approdato a Repubblica, che inizialmente non prevedeva lo
sport al lunedì, lamentava di dover soltanto filosofare sul
calcio, mancandogli il riscontro reale e immediato della partita,
percepita come ineliminabile rito di quella religione sportiva che
è il calcio. Chissà cosa direbbe oggi che la partita
è diventata quasi un "optional", una scusa per poter poi
innescare l'infinita cagnara dialettica.
Certo
è che, magari tirando martellate, si sarebbe ritagliato un
suo personale spazio, con quella singolare capacità di adattamento
che lo aveva portato a disimpegnarsi con identica disinvoltura nei
più svariati campi dello scrivere: all'ufficio stampa dei
paracadutisti o dei partigiani, sulle piste di atletica o sulle
strade del tour, negli editoriali da direttore o nei fantasmagorici
Arcimatto.
Uomo
legato alla tradizione e al culto della parola scritta, Gianni seppe
accettare l'avvento della televisione, che avvertì subito
come causa di grandi trasformazioni giornalistiche, senza però
drammatizzarne gli effetti. Le innovazioni tecnologiche, per quanto
possibile, non lo coinvolgevano più di tanto, alla silenziosa
tastiera del computer o della macchina per scrivere elettrica preferì
sempre il battito amico della Lettera 22, ma comprese che con la
televisione, anche se all'inizio meno potente e prepotente di oggi,
bisognava fare i conti. Lo stesso racconto della partita doveva
diventare meno legato alla cronaca, più meditato e di commento.
Non fu un gran problema per lui: di cose ne sapeva molte e sapeva
soprattutto come raccontarle. Non era tra l'altro un abituale frequentatore
delle sempre più affollate, e quindi inutili, sale stampa,
ma risultava documentatissimo, le sue fonti informative erano svariate:
curava in modo particolare l'amicizia con fotografi a bordo campo,
massaggiatori e magazzinieri. E così riusciva spesso a dare
qualcosa di nuovo, di fresco e originale ai suoi lettori. Serviva,
ancor più di prima, a sostenere l'urto della tv che, con
la potenza dell'immagine, propone subito i fatti, ma al tempo stesso
li banalizza, eliminando la suggestione del racconto attraverso
la parola.
Pur
avendo superato alla grande le esigenze di sopravvivenza immediata
legate al famoso lesso, restò sempre attento a procurarsi
anche il companatico e non tardò a scoprire che i vantaggi
legati alla figura dell'ospite o esperto televisivo superavano la
noia della presenza negli studi. Venne qualche volta anche alla
rai, ma preferiva bazzicare altre contrade catodiche più
remunerative. Quando arrivava in corso Sempione si chiacchierava
un po', per ingannare le attese della messa in onda e per il gusto
di fare un po' di maldicenza spicciola su questo o su quello. Esercizio
che costituisce il substrato obbligatorio di qualsiasi conversazione
tra addetti ai lavori. Non si può certo dire che trasudasse
entusiasmo per queste comparsate, a superare le sue costanti perplessità
giovava solo l'entità della "marchetta". Così definita
per assonanza non certo casuale con il prezzo dell'amore a pagamento
un tempo esercitato in luoghi all'uopo allestiti. Consolante era
anche la certezza che, esaurito l'impegno, si sarebbe finiti in
qualche ristorante a litigare sui vini e a stabilire gerarchie improbabili
sul valore di questa o quella cucina regionale. Al proposito Gianni
Brera era categorico: quella lombarda, se fatta a modo, superava
tutte le altre. Affermazione forte ma surrogata da tale ricchezza
di argomentazioni da mettere in difficoltà chiunque fosse
tanto temerario da contraddirlo. Lo mandava in bestia l'ovvio rilievo
che la ristorazione milanese, soprattutto a quei tempi, era monopolio
degli osti toscani: sacramentava allora sulla pirlaggine dei lombardi,
tracciando feroci analisi comparate sulle vicende milanesi di cucina
e di giornalismo. Pochi gli osti meneghini, nessun direttore di
testata, e tutti i lumbard a subire senza resistenza questi processi
di progressiva peninsularizzazione. Qualche volta sul finire della
serata, meglio della nottata, si giocava anche a carte, al Giôann
piaceva la briscola, magari quella chiamata, poca predilezione invece
per la scopa, ad assi o meno che fosse. Se c'era Rocco imperava
il ciapa no, scelta obbligata per un difensivista come el paron.
In ogni caso stare a tavola con Brera era un vero piacere e mi resta
il rammarico di aver partecipato poche volte alle famose riunioni
del giovedì, di cui, a supporto di quanto Brera ne scriveva,
avevo ragguagli da Peppin Viola che invece era ospite più
assiduo. Mi lusingava il fatto che proprio a lui talora Gianni chiedesse
informazioni su di me. Viola, fratello più che collega, amava
ricamarci su: una volta, per sottolineare quanto fossi pigro, gli
disse che la mia massima aspirazione era diventare il miglior giocatore
di boccette del rione in cui abitavo. Bugia grossa, naturalmente,
visto che in realtà volevo diventare il numero uno dell'intera
zona sei. In ogni caso quei due avevano capito che, per quanto facessi
il mestiere con ovvio diletto, non potevo certo dire di aver sentito
la chiamata al giornalismo: mi ero trovato lì per caso, contentissimo
di fare una cosa che mi piaceva essendo anche retribuito, ma per
nulla arso dentro da quel che si dice il sacro fuoco della vocazione.
Ho sempre sospettato che mi ritenessero un po' strano, per non dire
fuori di testa, ma non me la prendevo, tanto regolari dopo tutto
non erano nemmeno loro due.
Ci
sarebbe ancora molto da dire sul Giôannfucarlo: cacciatore
come tutti infallibile nei racconti, o esperto per antico sapere
familiare a catturar pesci con le mani, o promettente calciatore
selezionato nella rappresentativa dei boys milanesi. Risistemano
il tutto con un po' d'ordine Paolo Brera e Claudio Rinaldi con il
costante contrappunto degli scritti, molti inediti, attraverso i
quali il Nostro ci fa l'occhiolino, capace di dare il senso dell'avventura
a qualsiasi vicenda gli capitasse di comunicare.
Assume
così il sapore della saga familiare la narrazione della prima
giovinezza a San Zenone, tra sogni e stenti, con la figura di padre
Carlo potenziale grande atleta, roba che, se i tempi fossero stati
maturi, magari diventava un campione di quelli grossi. Saltatore
in lungo, in alto, gran nuotatore: bastava che ci avesse provato
sul serio e con il giusto stile.
Sull'argomento
tuttavia Gianni non poteva pretendere l'esclusiva: chi di noi non
ha avuto qualche parente che se solo fosse nato un po' dopo... Mio
padre, per esempio, era un autentico fenomeno nel tiro alla fune.
A
ciascuno di noi piace illustrare in qualche modo ascendenze di un
certo rilievo: Gianni poi poteva parlare dei Brera, magari diventati
ramo povero di una gens famosa, ma pur sempre Brera, che diamine!
Si
affollano i ricordi e uno li butta giù così, alla
rinfusa.
Comunque
la si rigiri, va a finire che ci riscopriamo tutti e più
che mai dei "senzabrera", per dirla con Gianni Mura, allievo tra
i prediletti. Caso mai qualcuno, ipotesi poco probabile, avesse
cominciato a dimenticare, gli autori provvedono a ricompattare il
popolo dei breriani.
Sono
aperte le iscrizioni anche ai giovani che non lo hanno conosciuto
e letto. Benvenuti.
|
Nel nome del Po
Il mio vero nome è Giovanni Luigi Brera.
Sono nato l'8 settembre 1919 a San Zenone Po, in provincia di Pavia,
e cresciuto brado o quasi fra boschi, rive e mollenti. Ricordandomi
seminudo con altri coetanei nelle acque della materna Olona, allora
fresca e verde non meno degli altri bei fiumi lombardi, ho talora
un brivido che sta fra il rimpianto e la paura. Il rimpianto per
quei giorni di beata e quasi animale incoscienza di noi e della
nostra solida povertà; la paura si rifà certamente
a lontane memorie bio-storiche, e come l'Olona fluisce a confondersi
con i terrori che il Po ci ha lasciato nel sangue.
Gianni Brera
Per reagire a quel brivido, mi attengo più
volentieri alle rive basse di Olona, ma talvolta non escludo l'ipotesi
che qualcuno di noi, fra tante oche e paperi naviganti sul fiume,
sia stato cucinato per errore alla sagra di San Bartolomeo. La sagra
viene a fine agosto, quando le anatre maggenghe sono giusto mature
per l'arrosto. Le oche, quelle sopravvivono per la muta, che rinnova
di piume candide i guanciali e le coperte trapunte; per loro si
aspetta che i cavoli verzotti abbiano a fare testa, e che li renda
croccanti il primo gelo: allora a punto anche il vinello dei nostri
ultimi filari: i ragôt di oca riempiono di acquoline alemanne
i prodi rivaioli di Po.
Tale premessa considero doverosa per il lettore
nuovo, che non mi confonda con gli agiografi d'occasione, con gli
economisti e i geografi ai quali tanto piace affondare nei nostri
sabbioni almeno fino alla caviglia, nelle nostre fanghe di lanca
fino al ginocchio et ultra, così da dover subito chiedere
aiuto.
E si capisce che poi mutano registro. Il fascino
del gran fiume gli si confonde in cifre e dispetto. I suoi gorghi
assassini, i parioeu - o imbuti - si dilatano in vortici spaventosi.
Le voci antiche si incupiscono di leggende sgradevoli o addirittura
macabre, orripilanti. Per le sue rive larghe e ineguali, il fiume
appare a loro, i foresti, una selvaggia e inconoscibile correntia
di umori precariamente instabili, ora come placata ma infida negli
slarghi, ora furiosa di impeti balzani e inutili, anzi dannosi.
Nossignori: io sono padano di riva e di golena,
di boschi e di sabbioni. E mi sono scoperto figlio legittimo del
Po, in aperta contraddizione con il Diritto Romano, per il quale
mater semper certa, pater numquam. La mia sicurezza filiale viene
dal complesso edipico nei confronti del padre. Non esiste infatti
padano vero nel cui sangue non si perpetui il timore e quindi l'odio
per il gran fiume.
Gli amori e le estasi agiografiche sono vezzi di
terricoli con i piedi ben al sicuro. Chi ha soltanto immaginato
uno dei suoi nelle acque profonde e impetuose del fiume non può
dire di amarlo. Chi l'ha sentito rombare nelle notti di piena non
può non temerlo. Chi l'ha visto erodere a poco a poco i suoi
campi e si è ritrovato povero dopo gli stenti le fatiche
le vittorie di intere generazioni, sente che al fiume padre si rifà
la sua sorte nel bene come nel male. Il senso panico gli sopravvive
nel sangue come l'angoscia che fu dei suoi avi e ancor oggi è
sua. Il Cristianesimo gli ha insegnato a escludere, secondo logica,
che si tratti di un nume, un iddio da venerare e da temere: ma l'invenzione
mitica e pagana era soltanto di comodo, trasposizione religiosa
che consentisse anche ragionevole scampo dalla paura, dal travaglio
continuo per resistere e non morire.
Il Po ha fatto ricchi e poveri a migliaia di migliaia.
Ogni famiglia padana è stata agiata o miserabile secondo
che il fiume ha voluto nelle sue piene cattive, nel suo subdolo
tentennare da riva a riva. Il Po è traditore, come mi hanno
insegnato a pensare fin da piccolo. Andare a nuotare in Po significa
farlo a proprio rischio e pericolo. Il rivaiolo padano diventa vir
agli occhi dei suoi paesani se riesce a traversare Po e tornare
nuotando. Nei suoi vizi osteo-muscolari è evidente l'influsso
diverso delle rive: chi sta sulla sinistra punta il remo per risalire
manovrandolo contro il bordo destro del suo battello, chi sta sulla
destra lo manovra sul bordo opposto. Le forcole sono ricavate da
due rami di robinia o di salice divaricati. I battelli sono di rovere
stagionata e obbediscono a norme idrodinamiche la cui memoria si
perde nei secoli, forse nei millenni. La gondola veneziana è
la sublimazione cittadina e mondana, diciamo edonistica, del battello
padano. Chiunque sia nato sul fiume e non ne sia scappato per tempo
sa remare vogando e sciando come i veneti. La sola complicazione
è data dalla forcola, che nella gondola di metallo a più
appoggi non ricurvi ("perché altrimenti, mi ha spiegato un
gondoliere, tutti sarebbero capaci di remare come noi").
Personalmente ho attraversato Po a dodici anni
e mi sono affidato alla corrente con altri non coetanei che mi hanno
subito avvertito come, in caso di malore, nessuno si sarebbe fermato
per aiutarmi; la stessa cosa avrei dovuto fare io se fosse stato
un altro ad avere una congestione o anche semplicemente i crampi
nei polpacci. Questo preciso accordo era tradizionale in Padania
e mio padre mi ha confermato di esservisi attenuto quando è
toccato a lui di attraversare Po. Ovviamente, giovava a rendere
emblematico un atto di normale coraggio.
La nostra tecnica natatoria era molto rudimentale.
Gli stili di nuoto erano tre soli: a cagnón (come cani);
a sguilz (a guizzi), cioè a spalletta; alla marinara (con
le due braccia alternate fuor d'acqua e la spinta a forbice con
i piedi). Nessuno che sapesse nuotare soltanto a cagnón ha
mai osato attraversare Po. Riposante e abbastanza redditizio era
lo stile a spalletta, un braccio sempre teso a sostegno, uno portato
fuori a tirare acqua, i piedi azionati a forbice come nella marinara.
Il crawl sarebbe venuto più tardi, con i ritorni estivi degli
studenti. Già lo stile alla marinara (over) consentiva notevole
velocità. In caso di stanchezza, era sempre agevole rifugiarsi
nello stile spalletta, secondare la corrente e toccare l'altra riva
a distanze talora impressionanti.
Ho detto che si passava a far parte dei viri (anticamente,
che so?, dei guerrieri) attraversando a nuoto il fiume e ritornando
quasi subito alla riva natia. Nuotare in Po era bullaggine che il
crawl ha dimensionato notevolmente. Io parlo dei miei tempi e non
esito a credere che tutto sia cambiato con la crescente diffusione
del nuoto come sport agonistico.
Nei nostri ricordi bio-storici, il Po è
rimasto come un nume bizzoso e incostante, perciò traditore.
Chi non vi è nato non sa distinguere un mollente all'inizio
dello scalone. Il fiume porta costantemente sabbia rubata all'una
o l'altra riva. Il filo - o Tahlweg - della sua corrente può
durare per anni o pochi mesi. Il canale formato dal filo è
profondo da quattro a dieci metri secondo altitudine, cioè
secondo distanza dalla sorgente e dal mare. Quando il filo di corrente
si urta a un tratto di riva non cedevole come altri, solitamente
ne viene respinto in un inquieto ribollire di acqua, di vortici
e onde maligne: quasi subito il canale di Po si sposta con il filo:
nel fondale precedente si deposita sabbia: l'acqua è bassa
fin dove si forma scalone: oltre quello, si placa in un mollente
che può essere esteso tanto da sfiancare qualsiasi nuotatore
malpratico.
Dalle mie parti, quando annega uno, si dice che
è annegato un milanese o un muntagné (cioè
uno di collina). I Padani annegano meno perché in effetti
arrischiano poco. La loro paura antica si trasforma in prudente
ritegno. Eppoi conoscono i mollenti; sanno dove li può sorreggere
il filo e dove non li aiuterebbe invece l'acqua morta.
Anche in battello i padani hanno paura. Mio nonno
paterno è annegato rovesciandosi dal bordo di un battello
che lo portava, ebbro, da Arena. Per quanto bullo fosse mio padre
- e un poco lo era - non l'ho mai visto prendersi troppe confidenze
quando remava sul fiume. Alcuni ghiaiadori suoi coetanei mi hanno
addirittura stupito per la fifa - non si trattava di altro - che
li prendeva quando mettevano piede su un battello non molto largo
di fondo e quindi geloso, cioè sensibile al minimo peso sui
bordi. I ghiaiadori solevano imbarcare sabbia o ghiaia sulle proprie
maone fino a lasciarle fuori appena due-tre dita di bordo. Sarebbe
bastata la minima ondicella a mandarle a picco: tuttavia i ghiaiadori
manovravano le loro grevi imbarcazioni senza il minimo patema: essi
invece sfioravano il ridicolo (a me pareva) quando lasciavano la
maona per uno di quei battellini da diporto che usavano i cittadini.
Riflettendoci meglio, ho creduto di capire che
l'antico rispetto seguitasse ad agire in loro quando solcavano il
Po per proprio esclusivo piacere e non per lavoro. Insomma, divertirsi
remando in Po gli pareva quasi sacrilego, e non temevano di manifestare
la loro venerazione per il Nume traverso quelle confessioni di paura
che a me tornavano tanto sorprendenti.
Del resto, la stessa paura, diciamo pure la stessa
superstizione, se di questo si tratta, si è andata manifestando
in me con l'aumentare degli anni. In molte occasioni ho ironizzato
sul Po e i suoi estri di padre ubriacone: troppe colline da vino,
avevo scritto, lambisce il gran fiume per non avere la piena, pardon,
la sbornia cattiva.
Era sicuramente un modo di uscire d'angoscia ironizzando
(io m'illudevo!) sulle nostre stesse paure dei ghiaiadori coetanei
di mio padre. Quando i miei figli imbulliscono nuotando dove io
pure ho nuotato, mi spavento. Qualche volta ho il sospetto che solo
nel raggiungere la riva, qualche altra di aver rischiato appoggiandosi
a una chiatta muschiosa, sotto la quale passava di traverso la corrente:
come dire: non ti disprezziamo, hai perfettamente ragione di rispettare
Po...
Gianni Brera: il suo stile,
ma sopra tutto i contenuti
di Paolo Brera
Di Gianni Brera si menziona spesso lo stile, scordando,
forse, quella che era la sua posizione autentica: cioè che
lo stile è secondario rispetto a ciò che si raccontava.
È in queste chiave che cercherò, nelle prossime righe,
di dare conto dello stile e di alcuni risvolti dell'opera di Brera
e della sua considerevole personalità.
Lo stile precipuo di Gianni Brera viene a maturazione
negli anni in cui è direttore della Gazzetta dello Sport,
cioè dal 1949 al 1954. La direzione della Rosea
del resto è in molti sensi l’avvenimento cruciale della carriera
di Brera. Scrivere di sport, e scriverne liberamente, ne porta a
termine la maturazione anche letteraria. Già che il direttore
scrive come vuole lui; e gli altri, anche (nel senso che essi pure
devono scrivere come vuole il direttore).
Tenendo le redini del quotidiano sportivo, Brera
è in grado di elaborare e di esprimere compiutamente, senza
più doversi inquietare di piacere a capiservizio o capiredattori,
la sua concezione difensivista del calcio. Nel difensivismo di Brera
confluiscono con ogni probabilità diverse esperienze: da
quella del centravanti innamorato del gioco inglese a quella del
partigiano che sa di dover sempre giocare in difesa: il contropiede
del gioco all’italiana assomiglia un po’ al "mordi e fuggi"
della tattica garibaldina della guerriglia. A tutto ciò si
aggiungono le conoscenze tecniche e fisiologiche maturate nello
studio dell’atletica: se manca il vigore, ragiona Brera, è
impossibile giocare tutto sull’attacco: la prima guerra mondiale,
come icasticamente dirà più tardi il giornalista,
non si sarebbe potuta vincere semplicemente decidendo di marciare
senz’altro su Vienna.
Dunque squadra disposta a catenaccio, pronta
al contropiede: due espressioni chiave che si cominciano
a sentire appunto nei primi anni Cinquanta. La prima nasce come
designazione spregiativa ma viene poi assunta e fatta propria dai
difensivisti; la seconda descrive, nella visione di Brera, la ragion
d’essere del quid designato dalla prima. Primo comandamento, non
prenderle: mica puoi perdere se non lasci segnare i gol all’avversario;
e se quello si sbilancia in avanti per provarci contro la tua difesa
ultra-agguerrita, quando perde la palla non ha più fra la
suddetta e la porta chi possa bloccarla prima della fatale estrema
riga di gesso della sua metà campo. Semplice come la lotta
fra il Bene e il Male nei film western dello stesso decennio, e
altrettanto appassionante, almeno per chi s’interessa di calcio
(il 90 per cento della popolazione maschile).
"All’inizio ero così compreso dei miei
doveri che senza volere assumevo uno stile aulico, diciamo quasi
di maniera crociana, che almeno si accorgesse il lettore di come
io prendevo sul serio lui, il calcio e il mio mestiere!" (
dallo scritto "Interpretazione critica di una partita di calcio",
pag. XVII). Le cronache calcistiche di Brera si distinguono per
le analisi tecniche, allora ben rare e approssimative negli scritti
di altri, e per lo stile che si viene elaborando proprio in quegli
anni.
"Il giornalismo calcistico non aveva neppure
un linguaggio suo", scriverà Brera parecchi anni più
tardi, rievocando quel periodo eroico: "molti termini inglesi
erano espressi con perifrasi alla lunga tediose e stucchevoli".
Toccherà appunto a Brera introdurre nella nostra lingua i
termini necessari per parlare di calcio. Molte delle espressioni
tecniche del gioco hanno origine appunto nelle pagine del cronista.
Ma anche al di là dei tecnicismi, la sua strabocchevole creatività
linguistica fa di Brera uno dei grandi del secolo XX. Il dialetto,
la lingua arcaica, gli idiomi stranieri e i neologismi hanno intessuto
gli scritti di Brera come di nessun altro.
Tullio de Mauro ha osservato che a partire dal
dopoguerra i dialetti, da sempre vivissimi nella penisola, subiscono
un'erosione crescente da parte della lingua letteraria, erosione
che potrebbe essersi arrestata solo negli ultimi anni. Dopo il 1945
gli àmbiti comunicativi in cui è appropriata la lingua
nazionale (per dirla con Wittgenstein, i giochi linguistici in cui
compare l'italiano) si vengono espandendo. Il bilinguismo si diffonde
sempre più, il monolinguismo dei parlanti il solo dialetto
diventa più raro. Parole e suoni dell'italiano trasmigrano
nelle parlate locali, spesso espellendone gli inquilini originari.
Séguita peraltro a incombere sulla lingua
nazionale l'ombra della sua nascita troppo letteraria, staccata
dalla vita (tranne in Toscana, dove però le parlate locali
sono ormai non meno dialettali di quelle di altre regioni, come
ha ricordato Giacomo Devoto). La lingua è più dei
dialetti capace di esprimere determinate cose, ma in diversi campi
è meno potente di essi e meno vivida. Di filosofia è
certo più facile parlare in italiano che in napoletano o
in milanese, ma è anche vero che certe immagini dialettali
della vita di tutti i giorni perdono ogni immediatezza se tradotte
in lingua. Ofellee, fa' el tò mestee: lo si può
dire assai bene in latino (Sutor, ne ultra crepidam!) ma
certo non altrettanto in fiorentinesco moscheto: "Pasticciere, fa'
il tuo mestiere(?!)".
Anche i dialetti, dunque, oggi contribuiscono alla
lingua, e addirittura molto di più di quanto non abbiano
fatto in passato. Cedono ad essa il loro normale materiale lessicale
o elementi di slang all'inizio alquanto intrisi di colore locale:
imbranato, pirla, marpione, pitonato, sgamare: e non è puro
caso se sono tutte espressioni volgari o molto colorite, come il
sedere di un babbuino (come el cuu d'on scimpantsee). Vanno
perfino più in là, i dialetti: influenzano la sintassi
della lingua, e anche - detto in modo più generale, anche
se con minore precisione - le movenze stesse dell'italiano parlato
e scritto.
La struttura molto complessa dei modi e dei tempi
verbali italiani, secondo è stato spiegato a chi scrive da
Maité Savaré, una studiosa di lettere classiche, deriva
dal fatto che il substrato linguistico della Toscana, cioè
della regione che ha fatto da culla al volgare italiano, non era
indoeuropeo ma etrusco. I latini si erano inventati il sistema dei
modi e tempi verbali per meglio chiarire i rapporti fra i diversi
eventi, il che era cruciale per fondare su basi solide il diritto
romano e in questo modo organizzare la dominazione dei popoli soggetti.
Ma là dove il latino si è sovrapposto a una qualche
parlata indoeuropea - celtica piuttosto che italica - la coniugazione
si è poi radicalmente semplificata. È riemersa, infatti,
l'originaria struttura indoeuropea - la quale non va molto al di
là della triade passato-presente-futuro, e talora, come nelle
lingue slave, tende a confondere congiuntivo e condizionale in una
specie di grande ammucchiata grammaticale.
Questo comodo modello su cui ricalcare i tempi
dei nuovi verbi latini mancava nelle regioni dove, prima della conquista
romana, si era parlato un idioma non indoeuropeo. Per questo motivo
lo spagnolo e l'italiano letterario conservano tuttora un apparato
di tempi verbali prossimo a quello latino: più complesso,
quindi, di quello del francese o dei dialetti italiani. Con secoli
di ritardo, la vendetta di Vercingetorige si sta consumando oggi
con il ritorno a una sintassi più semplice: ne è un
aspetto la radicale ristrutturazione della consecutio temporum
cui stiamo assistendo in questi ultimi anni nella nostra lingua,
insieme all'atrofia del congiuntivo.
La "trasfusione di sangue" dal dialetto alla lingua
non avviene in modo indiscriminato in tutti gli àmbiti della
vita sociale, né in qualunque momento. Avviene sopra tutto
là dove e quando si agitano forti emozioni: giacché
il dialetto è più popolare della lingua, dunque più
vivo e colorito, e ad esso si ricorre quando si vuole esprimere
qualcosa che in italiano apparirebbe esangue. Perché la trasfusione
abbia successo occorre poi che sia a portata di mano un mezzo di
comunicazione abbastanza autorevole e diffuso da estendere il nuovo
uso al di là dell'area in cui è stato generato.
Si può dire che il dialetto integra e arricchisce
la lingua là dove questa manca di vigore espressivo, mentre
al dialetto la lingua dà del suo se in esso esiste un vuoto
semantico, una voragine di concetti che non possono essere richiamati
in modo soddisfacente perché lo strumento "dialetto" è
inadeguato. Abyssus abyssum vocat, insomma.
Gianni Brera è stato un imbuto d'elezione
per l'enorme travaso nella lingua nazionale di modalità espressive
lombarde (ma anche settentrionali in generale) che si è verificato
nella seconda metà di questo secolo. Perché è
stato possibile per un giornalista sportivo svolgere un simile ruolo?
Non pretendo di dare qui una risposta completa. Intenderei però
fornire alcuni elementi che a me sembra facciano parte della risposta.
Capo primo, Brera ha sempre operato a Milano. L'Italia,
come ogni nazione, come ogni spazio economico, non è un insieme
amorfo, ma un insieme strutturato, in cui emergono diversi poli.
In questa realtà nazionale e socioeconomica Milano è
uno dei due poli più importanti (lascio alla fantasia di
chi ascolta l'individuazione dell'altro). In certo modo, è
la capitale del Nord Italia, dal cui territorio si alimenta sul
piano dell’economia e della popolazione. L'immigrazione dal resto
del Nord e i contatti quotidiani con la val Padana, la Liguria e
la Lunigiana fanno di Milano un crogiolo non solo sociale ed economico,
ma anche linguistico. Nell’Italia del dopoguerra Milano è
sempre stata il massimo centro dell'industria editoriale e discografica.
Negli anni Settanta e Ottanta è divenuta anche uno dei poli
televisivi del Paese, e ha assunto un peso maggiore anche in un
mezzo - pure declinante - come il cinema. Per questo il materiale
lessicale, grammaticale e sintattico che affluisce a Milano per
esservi integrato alla versione locale della lingua italiana viene,
in un secondo tempo, nuovamente ridiffuso in tutte le direzioni.
Nel recensire su "Repubblica" il romanzo di Brera
Il mio vescovo e le animalesse , Beniamino Placido ha osservato
che nel romanzo le espressioni in dialetto pavese tradotte nelle
note a pie' di pagina risultavano a volte ostiche, mentre negli
articoli di giornale si lasciavano agevolmente comprendere senza
bisogno di rimandi, perché si inserivano nel contesto in
modo del tutto naturale. Placido ha abbastanza ragione. La comprensione
è massima nelle cronache calcistiche. E se uno si domanda
seriamente perché, ecco come deve rispondere: perché
appunto in quelle, perfino nelle più tecniche, è massima
la tensione emotiva; e dunque lì tocca il punto massimo anche
la potenza espressiva del dialetto.
Contesto milanese, contesto calcistico: Brera agisce
in uno degli àmbiti più passionali della vita contemporanea,
a partire da uno dei centri di irradiamento linguistico più
dinamici di questo secolo. La sua personale attività creativa
ne viene potenziata. L'uomo giusto, nel momento giusto, al posto
giusto: e con il mezzo di comunicazione giusto. Ci stiamo avvicinando
a una risposta per la domanda di prima.
Brera è stato spesso accostato a Carlo Emilio
Gadda, in alcuni casi perché lo si voleva ridimensionare
con un confronto che si presumeva sfavorevole. Il giudizio di critica
letteraria non mi compete. Mi preme tuttavia mettere in rilievo
che tra i due esiste una differenza profonda: la fecondazione della
lingua mediante il dialetto avviene in Brera a caldo, nel mulinello
delle passioni generate dallo sport: mentre in Gadda ogni manipolazione
linguistica occorre del tutto a freddo. La creazione letteraria
libera da costrizioni di tempo e di soggetto ha in Brera uno spazio
incomparabilmente minore che in Gadda.
Il dialetto non è, comunque, l'unica chiave
di comprensione del Brera artigiano (o artefice) della lingua: c'è
anche l'assidua pratica del neologismo e l'uso delle lingue.
Il neologismo è importante. Parole come
"intramontabile" o "abatino" ed espressioni come "senso euclideo"
hanno documentabile origine nelle cronache breriane; e molte altre
se ne potrebbero citare. Alcune sono passate nell'uso generale,
traboccando con naturalezza al di fuori dell'àmbito sportivo.
Altre sono manifestazioni di uno stile personale che tale è
rimasto anche nel fiorire delle imitazioni (i cosiddetti "brerini").
Il ricorso alle lingue ha in Brera una funzione
poco meno importante. Francese, spagnolo, qualche po' di tedesco,
misuratissimo inglese forniscono materiale che Brera incastona in
un periodare pur sempre italiano-del-Nord. In ciò non diverse,
tali lingue, dal romanesco o dal napoletano, se non per il differente
registro delle frasi in cui si lasciano inserire. Per esemplificare:
una parola comeWeltanschauung non può essere sostituita
da un prestito partenopeo, né Vico (che Brera amava citare)
ha mai scritto nel dialetto della sua città, pure coltissima
nelle sue élites.
Il latino era, insieme al francese, la lingua di
cultura più consona a Brera. In Italia la cultura te la dà
la media superiore, non l'Università, che tende semmai a
specializzarla e parcellizzarla, a volte a un segno tale da snaturarla.
Vero in generale, verissimo nel caso di Brera. Laureato in Scienze
Politiche a Pavia durante la guerra mondiale, ne aveva però
seguito i corsi in modo saltuario: non per scelta, certo: ma perché
altrui decisioni giusto in quegli anni lo impegnavano a gettarsi
armato, appeso ad un serico velo, da aeroplani in volo. Il latino
di Brera era quello del liceo scientifico, attraverso il quale filtrava
(temporibus illis) anche parecchio greco classico. E proprio il
liceo scientifico, nel dopoguerra, era la scuola della classe media
emergente, che apprezzava una reminiscenza di Orazio inserita in
un resoconto sportivo e anche per questo, forse, era grata a Brera
del suo volersi fare tramite fra l'istruzione e il football. Più
in generale, questa considerazione si applica anche allo sfoggio
di cultura letteraria e storica che così spesso si ritrova
nelle pagine di Brera: per quel tanto che capisce o che ricorda,
il nuovo italiano inurbato e piccolo borghese ritrova ciò
che gli hanno fatto studiare nella scuola secondaria e che conserva
intatto il suo prestigio.
Dialetto, neologismi, lingue estere e latino: manca
ancora solo un'altra delle componenti della tela di fondo su cui
si staglia lo stile di Brera: quella del purismo. Nello studio in
cui il Brera della maturità produceva i suoi scritti troneggiava
il quasibiblico Devoto-Oli, non si contavano gli altri dizionari.
E il materiale lessicale, con il significato esatto delle parole,
veniva anche dalla lettura quotidiana di romanzi, saggi e racconti:
le ore della notte, sorseggiato che fosse l'ultimo centilitro di
Barbaresco, partito l'ultimo amico, erano dedicate alla letteratura,
così come le prime ore del risveglio, a parte una tazza di
tè che prendeva ancora a letto, erano sacre alla stampa periodica.
Certo, nella frenesia delle cronache il ricorso
metodico a tutto questo indispensabile background non era possibile:
bisognava usare lì per lì quanto urgeva alla mente
e alle dita del giornalista, per il quale la deadline del quotidiano
è più sacra della Messa della domenica. Come dare
torto a Brera, quando rimproverava a Umberto Eco di non comprendere
in quali condizioni lavorasse e sempre necessariamente lavori il
cronista? lui che aveva il becco di paragonare gli esagitati scritti
sportivi a quelli del letterato, il quale solo ha il cospicuo privilegio
di poter rifinire il proprio secreto con la dovuta calma! Il tour
de force della domenica era d'altro canto preceduto dagli allenamenti
linguistici della settimana. Nei giorni feriali c'era più
tempo: a dire il vero, non poi tanto di più quando si trattava
di scrivere: ma sì per leggere, e dunque per introiettare
movenze linguistiche e stilemi da resuscitare in diligenza al dì
di festa.
Una volta creato e legittimato agli occhi del pubblico
il suo stile, Brera non intendeva certo limitarsi a usarlo nelle
sue cronache sportive. Fra cento anni, credo, queste non saranno
più neppure nominate, e di lui si ricorderanno solo le opere
letterarie: le tre biografie romanzate di ciclisti (Pavesi, Coppi
e Campagnolo), i tre romanzi della Trilogia di Pianariva,
e la commedia Mille e non più mille. In tutti questi,
tranne forse la sola biografia di Campagnolo, è evidente
l'importanza della dimensione locale.
"In novembre, la
nostra Bassa è il paese più triste del mondo. Gli
alberi sono spogli. L'erba è brinata. Dai fossi e dai fiumi
sale ondeggiando la nebbia. I corvi si riuniscono in branchi e indugiano
sugli arati lanciando rauche strida. La gente sente venire l'inverno
e senza volere incupisce. Nei suoi lavori c'è un senso di
fretta ansiosa, che gli animali scontano a legnate".
Con queste parole Gianni Brera introduce, a due terzi del Corpo
della ragassa, il vero protagonista di questo come degli altri
suoi lavori: il microcosmo sociale e geografico del Pavese, la sua
terra di origine.
Gli abitanti del Pavese, discendenti dei liguri
levi che vivevano nella zona già prima dell'arrivo dei romani,
hanno un ethos fatto di lavoro costante e ben fatto, sono semplici
ma ben motivati nella ricerca dei piaceri, rifuggono dalle esagerazioni
e si mostrano tolleranti verso gli altri. Se in guerra o nella vita
compiono atti di coraggio hanno ritegno di parlarne, perché
sospettano interessato inganno in ogni mostra di alte virtù
od alti sentimenti. Nella colonna del passivo bisogna iscrivere
l'invidia paesana, il rifiuto di riconoscere la grandezza di chiunque
faccia parte dello stesso microcosmo, e una buona dose di classismo.
E qua e là, anche la grettezza.
Ormai da secoli il territorio di Pavia subisce
non solo l'attrazione economica e sociale della città capoluogo,
ma anche quella di Milano. A questi legami materiali e storici corrisponde
anche un legame nella formazione intellettuale e culturale di Gianni
Brera. Il microcosmo della Bassa pavese è il punto di partenza
e la chiave più sicura per ogni interpretazione profonda
della sua anima; Pavia è il luogo dell'elaborazione, dove
le più caratteristiche tendenze interiori si decantano; e
Milano è l'arena in cui alla fine Brera scenderà,
da giornalista e scrittore, con in resta la lancia polemica che
gli conosciamo.
Vistose tracce di questo legame fra le tre aree,
così come si presentava negli anni Venti e Trenta, sono presenti
sopra tutto nel romanzo Il corpo della ragassa. La bassaiola
Cecchina, detta anche Le Disgrazie del Vizio, per legarsi
con un balordo è andata a Milano, né avrebbe potuto
andare altrove; Pavia è la città dietro l'angolo,
dove si gode di una maggiore libertà d'azione ma pure si
deve mantenere una certa cautela; e San Zenone al Po, che nel romanzo
compare con il suo vero nome e non con quello, Pianariva, dei romanzi
successivi, è il villaggio rurale, arretrato e limitato,
dal quale a tutti i costi occorre emanciparsi. In esso per Brera
ci sono anche valori positivi: è sicuro: ma bisogna necessariamente
vederli in controluce, perché su quelli lui dirà sempre
ben poco di esplicito. E nei romanzi, niente.
Anche questo, del resto, fa parte del carattere
pavese. In altri scritti la valorizzazione della pavesitas
è invece più che esplicita: dove si parla di cibi
e di vini, di tradizioni popolari, di cultura locale. Però
questo campanilismo non era cieco e sordo di fronte alle tradizioni
degli altri, ai valori di aree diverse dalla sua. Brera è
stato un grande interprete di tutto questo in tutte le aree geografiche
in cui si è mosso: in Lombardia e nel Nord Italia più
che nel resto del Paese, ma non unicamente in Lombardia o nel Nord
Italia. Lo scrittore lombardo ha amici in Sardegna, in Sicilia,
in Toscana, a Napoli, nel Lazio: non gliene conosco a Bari o in
Lucania, ma dev'essere un caso o una carenza informativa di chi
scrive. Io credo che, nella cultura e nella vita, Brera sia stato
un buon esempio di un modo regionale di essere italiani. Ma per
essere più preciso, mi domando se esistano poi altri modi,
diversi da questo, di essere italiani.
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